Hemingway tra San Siro, Milano, Lonchamp e Parigi. La storia di un fantino e di due grandi cavalli.

I protagonisti di questo racconto

Da sinistra. Ksar, il grande cavallo poi vincitore di Arc e grande stallone – il Cafè de Paris negli anni venti e tutt’ora esistente in cui si racconta parte della storia e luogo di ritrovo di fantini –  l’insegna che campeggia all’ingresso della città di Maison Lafitte – Ernest Hemingway al lavoro – Kircubbin, il vincotore del Gran Prix de Saint Cloud

Da I 49 RACCONTI di Hernest Hemingway uno spaccato sull’ippica milanese e parigina degli anni Venti di un grande scrittore e grande appassionato di corse e purosangue. In cui si narra anche di un altrettanto grande fantino italiano, Federico Regoli e dei Turner, del Gran Premio del Commercio del ’22 vinto da Lantorna, di proprietà austriaca e del Gran Prix de St Cloud dove il jokey di Ksar imbragò e fece vincere Kircubbin.

I personaggi uomini e cavalli di questo racconto di un giovane Hemingway, che amava Milano per esserci stato da corrispondente di guerra, da cui trasse il libro Addio Alle armi, sono in parte realmente esistiti. Vero è l’aneddoto relativo al Gran Premio del Commercio, e soprattutto quello sul Gran Prix de Saint Cloud dove il grande Ksar fu battuto in foto dal più modesto Kircubbin. CG

“Il mio vecchio” di Hernest Hemingway da “I 49 Racconti”

Adesso, ripensandoci, credo proprio che il mio vecchio avesse la tendenza a ingrassare, a diventare, preciso preciso, uno di quei tombolotti che si vedono in giro, ma di sicuro non lo diventò mai, tranne un po’ verso la fine, forse, e allora non era colpa sua, allora faceva solo corse a ostacoli e poteva permettersi di portare tutto il peso che voleva. Ricordo quando s’infilava un camiciotto di gomma sopra un paio di maglie, e sopra il camiciotto ancora un altro maglione, e mi faceva correre con lui la mattina sotto il sole cocente. Magari, la mattina di buon’ora, aveva già fatto qualche giro di prova con uno dei brocchi di Razzo, subito dopo essere arrivato da Torino alle quattro del mattino e aver preso un taxi per correre alle scuderie, e poi, con la rugiada che copriva ogni cosa e il sole che cominciava a spuntare solo allora, io lo aiutavo a sfilarsi gli stivali e lui si metteva un paio di scarpe da ginnastica e tutte queste maglie, e ci avviavamo insieme. «Su, ragazzo» diceva, saltellando sulla punta dei piedi davanti allo spogliatoio dei fantini «rimoviamoci.» Allora facevamo forse un giro di campo, con lui che tirava, correndo con eleganza, e poi uscivamo dal cancello e prendevamo una di quelle strade con gli alberi da tutt’e due le parti che partono da San Siro. Quando uscivamo dall’ippodromo passavo in testa io, che ero capace di correre piuttosto forte, e voltandomi indietro a guardare lo vedevo saltellare con disinvoltura alle mie spalle, e dopo un po’ mi voltavo un’altra volta e lui aveva cominciato a sudare. Sudando copiosamente continuava a darci dentro, con gli occhi incollati alla mia schiena, ma quando si accorgeva che lo guardavo sorrideva e diceva: «Sudo abbastanza?». Quando il mio vecchio sorrideva, nessun altro poteva trattenere un sorriso. Continuavamo a correre verso le montagne e poi il mio vecchio urlava: «Ehi, Joe!» e io mi voltavo indietro e lui era là seduto sotto un albero con un asciugamano intorno al collo, quello che prima aveva intorno alla vita. Tornavo indietro e mi sedevo accanto a lui e lui toglieva di tasca una corda e cominciava a saltare la corda, al sole, col sudore che gli grondava dal viso, e saltava nella polvere bianca con la corda che faceva cloppete, cloppete, clop, clop, clop, e il sole che diventava sempre più caldo, e lui che ci dava dentro sempre più, avanti e indietro per un pezzo di strada. Ehi, anche vedere il mio vecchio che saltava la corda era uno spettacolo. Sapeva farla roteare velocissima o volteggiare lenta ed elegante. Ehi, avreste dovuto vedere come ci guardavano gli italiani, certe volte, quando passavano di lì per entrare in città, marciando di fianco ai giovenchi, grossi e bianchi, che tiravano il carro. Avevano proprio l’aria di pensare che il mio vecchio fosse matto. Quanto a lui, faceva girare la corda così in fretta che quelli s’incantavano a guardarlo, poi scuotevano i giovenchi con uno schiocco della lingua e una stoccata del pungolo e si rimettevano in cammino. Quando stavo là seduto a guardarlo, mentre lui ci dava dentro sotto il sole cocente, sentivo proprio un grande affetto per lui. Era uno spasso, e lui ce la metteva proprio tutta, e finiva con un vero mulinello che gli faceva colare il sudore dal viso come se fosse acqua, e poi buttava la corda ai piedi dell’albero e veniva a sedersi lì con me e si appoggiava all’albero con l’asciugamano e un maglione intorno al collo. «Certo che è dura tenerla giù, Joe» diceva, appoggiando le spalle al tronco e chiudendo gli occhi e tirando respiri lunghi e profondi «non è come quando sei un ragazzo.» Poi si alzava e, prima che cominciasse a raffreddarsi, tornavamo di corsa alle scuderie. Ecco quello che si doveva fare per non far salire il peso. Lui era sempre preoccupato. Alla maggior parte dei fantini basta montare per togliersi di dosso il grasso in più. Un fantino perde circa un chilo ogni volta che monta, ma il mio vecchio si era come prosciugato e non poteva tener bassi i suoi chili senza tutte quelle corse. Ricordo una volta a San Siro quando Regoli (Federico Regoli), un piccolo italiano che montava per Buzoni, uscì attraverso il paddock per andare a prendere qualcosa di fresco al bar; si batteva gli stivali col frustino, dopo essersi appena pesato, e anche il mio vecchio era appena stato al peso, e usci con la sella sottobraccio, rosso in faccia e stanco e troppo grosso per il costume di seta che indossava, e si fermò a guardare il giovane Regoli ritto davanti al banco di quel bar all’aperto, con la sua aria fresca e infantile, e io dissi: «Che c’è, papa?», perché credevo che Regoli, magari, lo avesse spinto o disturbato in qualche modo, e lui si limitò a guardare Regoli e a dire: «Oh, all’inferno» e prosegui verso gli spogliatoi. Be’, sarebbe andato tutto bene, forse, se fossimo rimasti a Milano, correndo a Milano e a Torino, perché se c’erano degli ippodromi facili erano questi due. «Una passeggiata, Joe» disse il mio vecchio quando mise piede a terra nel recinto del vincitore dopo quello che secondo gli italiani doveva essere uno steeplechase da brivido. Un giorno glielo chiesi. «Questa pista ti porta da sola. È l’andatura a rendere pericoloso il salto degli ostacoli, Joe. Qui si va come lumache, e non ci sono nemmeno degli ostacoli veramente brutti. Ma è sempre l’andatura. non gli ostacoli – a metterti nei guai.» San Siro era l’ippodromo più bello che io avessi mai visto, ma il vecchio diceva che era una vita da cani. Andare avanti e indietro tra Mirafiori e San Siro e montare quasi tutti i giorni con un viaggio in treno ogni due notti. Anch’io ero pazzo per i cavalli. C’è qualcosa, quando escono e si avviano lungo la pista al palo di partenza. Nervosi e scalpitanti come sono, col fantino che ora li trattiene e ora forse molla un po’ le redini e li lascia scattare in avanti. Poi, una volta arrivati ai nastri, mancava poco che mi sentissi male. Specie a San Siro, con quel grande campo verde e i monti in lontananza e il grasso mossiere italiano con la sua grossa frusta e i fantini che cincischiano e poi i nastri che si alzano di scatto e quella campana che suona e tutti che partono in gruppo e poi cominciano a sgranarsi in una lunga fila. Lo sapete come parte un grappolo di brocchi. Se siete su in tribuna col binocolo, tutto quello che si vede è quando si gettano avanti, e poi suona quella campana e sembra che continui a suonare per mille anni, e poi si vedono sbucare dalla curva, a rotta di collo. Ma il mio vecchio disse un giorno, negli spogliatoi, mentre si cambiava: «Questi non sono cavalli, Joe. A Parigi li manderebbero al macello per tenere gli zoccoli e le pelli». Era il giorno in cui aveva vinto il premio del Commercio (poi Gran Premio di Milano, ndr) su Lantoma, facendola scattare negli ultimi cento metri come un tappo da una bottiglia. Fu subito dopo quel premio che partimmo e lasciammo l’Italia. Il mio vecchio, Holbrook e un italiano grasso col cappello di paglia che continuava ad asciugarsi la faccia con un fazzoletto ebbero una discussione a un tavolo in Galleria. Parlavano tutti in francese e gli altri due ce l’avevano col mio vecchio per qualcosa. Alla fine lui non parlò più ma rimase là seduto a guardare Holbrook, e i due insistevano, parlando prima l’uno e poi l’altro, con l’italiano grasso che interrompeva sempre Holbrook. «Vammi a comprare lo “Sportsman”, eh, Joe?» disse il mio vecchio, e mi allungò due soldi senza distogliere lo sguardo da Holbrook. Così uscii dalla Galleria per andare davanti alla Scala a comprare il giornale, e tornai indietro e mi tenni un po’ in disparte perché non volevo interferire, e il mio vecchio era seduto con le spalle appoggiate allo schienale guardando il suo caffè e giocherellando col cucchiaino, e Holbrook e l’italiano grasso erano in piedi, e l’italiano grasso si asciugava il viso e scuoteva la testa. E io mi avvicinai e il mio vecchio si comportò proprio come se quei due non fossero là in piedi e disse: «Vuoi un gelato, Joe?». Holbrook abbassò lo sguardo e disse, lento e preciso: «Figlio di puttana» e se ne andò con l’italiano grasso, passando fra i tavoli. Il mio vecchio rimase là seduto e mi rivolse una specie di sorriso, ma il suo volto era bianco e sembrava che lui stesse malissimo, e io avevo una gran fifa e mi sentivo un vuoto al-la bocca dello stomaco perché sapevo che era successo qualcosa e non capivo come uno potesse dare al mio vecchio del figlio di puttana e farla franca. Il mio vecchio aprì lo “Sportsman” e per qualche tempo studiò gli handicap e poi disse: «Bisogna sopportare un mucchio di cose in questo mondo, Joe».

E tre giorni dopo, col treno di Torino per Parigi, lasciavamo Milano per sempre, dopo aver venduto all’asta, davanti alle scuderie di Turner, tutto quello che non eravamo riusciti a ficcare in un baule e in una valigia. Arrivammo a Parigi la mattina di buon’ora, in una stazione lunga e sporca che – mi disse il vecchio – era la Gare de Lyon. Dopo Milano, Parigi era una città spaventosamente grande. A Milano si ha sempre l’impressione che tutti vadano in qualche posto, e che tutti i tram abbiano una destinazione e che non ci sia nessuna confusione; Parigi, invece, è tutta fatta su come una palla e nessuno la srotola mai. Finì per piacermi, comunque, almeno in parte, perché, accidenti, ci sono i migliori ippodromi del mondo. Si direbbe che sia questa, la molla di tutto, e tutto quello che si può pensare è che ogni giorno ci saranno degli autobus per andare all’ippodromo dove si corre, qualunque sia, passando sopra a tutto pur di arrivare là. Non sono mai riuscito a conoscere bene Parigi, perché ci venivo una o due volte la settimana col vecchio da Maisons e lui si sedeva sempre al Café de la Paix, dalla parte dell’Opera, col resto della ganga di Maisons, e credo che sia una delle parti più trafficate della città. Ma, dico, è strano che una città come Parigi non abbia una Galleria, no? Dunque, noi andammo a stare a Maisons-Laffitte, dove stanno quasi tutti tranne la ganga di Chantilly, da una certa signora Meyers che dirige una pensione. Maisons, per abitarci, è forse il più bel posto che io abbia mai visto in tutta la mia vita. Il paese non è granché, ma c’è un lago e una bellissima foresta dove andavamo a zonzo tutto il giorno, io e un amico, e il mio vecchio mi costruì una fionda con cui prendemmo un mucchio di cose, ma la migliore era una gazza. Con questa fionda, un giorno, il giovane Dick Atkinson colpi un coniglio, e noi lo mettemmo sotto un albero, e gli stavamo seduti tutt’intorno, a fumare le sigarette di Dick, quando a un tratto il coniglio saltò su e se la batté tra i cespugli, e noi ci buttammo all’inseguimento ma non riuscimmo a trovarlo. Dio, come ci siamo divertiti a Maisons. La signora Meyers mi serviva il pranzo al mattino, e poi io stavo fuori tutto il giorno. Imparai presto a parlare francese. È una lingua facile. Appena arrivati a Maisons, il mio vecchio scrisse a Milano per avere la licenza, e rimase piuttosto preoccupato finché non arrivò. Passava molte ore con la ganga al Café de Paris di Maisons, perché lì c’era un sacco di gente che aveva conosciuto quando correva a Parigi, prima della guerra, e c’è sempre molto tempo libero perché il lavoro nella scuderia, per i fantini, cioè, è già finito alle nove del mattino. Loro portano fuori il primo gruppo di ronzini, per fargli fare una galoppata, alle cinque e mezzo del mattino, e il secondo gruppo lo portano a spasso alle otto. Ciò significa che bisogna alzarsi presto e anche andare a letto presto. Se poi il fantino monta anche per qualcuno, non può andare in giro a bere, perché, se è un ragazzo, l’allenatore gli tiene gli occhi addosso e se non lo è gli occhi addosso se li tiene da solo. Così, se non lavora, il fantino passa quasi tutto il tempo con la ganga al Café de Paris, e sono tutti capaci di star seduti due o tre ore davanti a un bicchiere, per esempio di vermut col seltz, a parlare e a raccontare storielle e a giocare a bigliardo, ed è un po’ come un circolo o, a Milano, la Galleria. Solo che non è proprio come la Galleria, perché là c’è sempre un gran viavai e i tavoli sono affollatissimi. Dunque, il mio vecchio ebbe la sua licenza. Gliela spedirono senza una parola e lui disputò un paio di corse. Amiens, le città dell’interno e così via, ma sembrava che non riuscisse ad avere un ingaggio. Era simpatico a tutti, e ogni volta che al mattino entravo nel caffè trovavo qualcuno che beveva con lui, perché il mio vecchio non era uno spilorcio come la maggior parte di questi fantini che hanno guadagnato il primo dollaro correndo nel novecentoquattro alla Fiera mondiale di St Louis. Così diceva il mio vecchio per sfottere George Burns (fantino americano, ndr). Ma sembrava che tutti si guardassero bene dal trovargli un cavallo. Ogni giorno andavamo con la macchina da Maisons dovunque si corresse, e quella era la cosa più divertente di tutte. Io fui contento quando, alla fine dell’estate, i cavalli tornarono da Deauville. Anche se questo significava non andare più a spasso per i boschi, perché allora andavamo con la macchina a Enghien o a Tremblay o a Saint-Cloud a vederli dalla tribuna degli allenatori e dei fantini. Ne imparai, di cose, sulle corse, andando in giro con quella comitiva, e il bello era che ci si andava tutti i giorni. Ricordo, una volta, a Saint-Cloud. Era una grande corsa (Gran Prix de Saint Cloud, ndr) da duecentomila franchi con sette concorrenti e Kzar era il grande favorito. Io andai nel paddock a vedere i cavalli col mio vecchio, e non ne avete mai visti di cavalli come quelli. Questo Kzar è un cavallone giallo che sembra fatto apposta per correre. Non ho mai visto un cavallo simile. Lo portavano in giro per il paddock a testa bassa, e quando passò vicino a me mi sentii un vuoto allo stomaco, tanto era bello. Non era mai esistito un cavallo così meraviglioso, snello e fatto per correre. E girava per il paddock mettendo gli zoccoli dove doveva metterli, e muovendosi con calma, con precisione e con disinvoltura, come se sapesse esattamente quello che doveva fare, e senza impuntarsi e senza impennarsi e senza strabuzzare gli occhi come si vede fare a questi brocchi messi in vendita con la bomba in corpo. La folla era cosi fitta che dopo un po’ non riuscivo più a vederne altro che le zampe che passavano e un po’ di giallo, e il mio vecchio si mise a fendere la calca e io lo seguii negli spogliatoi dei fantini, tra gli alberi sul retro, e c’era una gran folla anche da quelle parti, ma l’uomo sulla porta, con la bombetta, salutò il mio vecchio con un cenno del capo e noi entrammo, e tutti stavano seduti qua e là e si vestivano e s’infilavano camicie dalla testa e si mettevano stivali e dappertutto c’era un odore caldo di sudore e linimento, e fuori c’era la folla che guardava dentro. Il mio vecchio andò a sedersi vicino a George Gardner che si stava infilando i calzoni e disse: «Che mi racconti, George?», nel suo tono di voce più normale, perché è inutile fare la commedia, perché George può fare due cose: o glielo dice o non glielo dice. «Non vince» dice George, pianissimo, sporgendosi verso di lui e abbottonandosi le braghe sotto il ginocchio. «Chi vince?» fa il mio vecchio, avvicinandosi per non farsi sentire da nessuno. «Kircubbin» dice George «e in questo caso fa’ un paio di puntate anche per me.» Il mio vecchio dice qualcosa a George con la sua voce normale e George dice: «Non puntare mai sui cavalli che ti dico io» come scherzando, e noi ce la battiamo e passiamo tra la gente che guardava dentro, fino al totalizzatore da cento franchi. Ma io sapevo che c’era sotto qualcosa, perché George è il fantino di Kzar. Strada facendo il mio vecchio prende uno di quei fogli gialli con le quote di partenza, e Kzar paga solo cinque a dieci, poi, tre a uno, viene Cefisidote, e al quinto posto c’è questo Kircubbin, otto a uno. Il mio vecchio punta su Kircubbin, cinquemila vincente e mille piazzato, e poi girammo dietro le tribune per salire le scale e scegliere un posto da cui seguire la corsa. Eravamo pigiati come sardine, e per primo uscì un uomo con una giacca lunga, un cilindro grigio e in mano una frusta ripiegata, e poi i cavalli, l’uno dopo l’altro, con i fantini in sella e uno stalliere che li teneva per le briglie da ogni lato e procedeva di fianco agli animali, seguirono il vecchio signore. Al primo posto era quel cavallone giallo, Kzar. Non sembrava così grosso, la prima volta che lo vedevi, finché non notavi la lunghezza delle zampe e tutto il modo in cui è fatto e come si muove. Accidenti, non ho mai visto un cavallo simile. Lo montava George Gardner, e venivano avanti lentamente, cavallo e cavaliere, dietro il vecchio signore col cilindro grigio che camminava come se fosse il direttore di un circo. Dietro Kzar, che avanzava lustro e giallo sotto il sole, veniva un bel morello dalla testa ben proporzionata montato da Tommy Archibald; e dopo il morello c’era una fila di altri cinque cavalli che passavano tutti lentamente, in processione, davanti alle tribune e al pesage. Il mio vecchio disse che il moro era Kircubbin e io lo guardai bene, ed era un bel cavallo, sissignori, ma con Kzar non aveva niente da spartire. Tutti applaudirono Kzar, mentre passava, ed era proprio un bellissimo cavallo. Il corteo girò dall’altra parte, passando davanti al prato, e si fermò in fondo alla pista, dove il direttore del circo ordinò agli stallieri di lasciar liberi i cavalli, l’uno dopo l’altro, in modo che sfilassero al galoppo davanti alle tribune mentre andavano ai nastri di partenza e tutti potessero vederli bene. Si erano appena allineati quando suonò il gong, e allora fu possibile vederli, lontanissimi, di là dal prato, partire tutti in gruppo e gettarsi verso la prima curva come tanti cavallini per bambini. Io li stavo guardando col binocolo e Kzar era piuttosto indietro, con uno dei bai che facevano l’andatura. Finirono la curva, entrarono in rettilineo e passarono davanti alle tribune, e Kzar era molto indietro quando ci passarono davanti, mentre in testa c’era questo Kircubbin, che filava senza intoppi. Dio, è terribile quando ti passano davanti e poi ti tocca di vederli allontanarsi e diventare sempre più piccini, e poi tutti raggruppati nelle curve, per poi sgranarsi nuovamente in rettilineo, e ti vien voglia d’inveire e bestemmiare sempre più. Finalmente fecero T’ultima curva ed entrarono in dirittura d’arrivo con in testa questo Kircubbin, staccato di un bel po’. Tutti avevano una faccia strana e dicevano «Kzar» come se avessero mal di pancia, mentre i cavalli divoravano il rettilineo, e poi qualcosa uscì dal gruppo ed entrò nel mio campo visivo, qualcosa di simile a una striscia gialla con la testa di cavallo, e tutti cominciarono a gridare «Kzar» come se fossero diventati matti. Kzar era il cavallo più veloce che io avessi mai visto in vita mia, e incalzava Kircubbin che, per essere un morello, non poteva andare più svelto di così, col fantino che lo frustava a tutto spiano, e per un attimo furono testa a testa anche se Kzar, con quei balzi giganteschi e quella testa alta, sembrava due volte più veloce di lui: ma fu mentre erano così testa a testa, che passarono il traguardo, e quando apparvero i cartelli con i numeri il primo era un due e ciò significava che Kircubbin aveva vinto. Io mi sentivo, dentro, tutto strano e tremante, e poi ci trovammo pigiati tra là folla che scendeva le scale per andarsi a mettere davanti al tabellone dove avrebbero esposto quanto pagava Kircubbin. Parola, guardando la corsa mi ero dimenticato di quanto il mio vecchio aveva puntato su Kircubbin. Avevo tanto voluto che Kzar la vincesse. Ma ora che tutto era finito era bello sapere che avevamo azzeccato il vincente. «Non è stata una bella corsa, papa?» gli dissi. Mi guardò in modo strano, con la bombetta sulla nuca. «George Gardner è un gran fantino, come no» disse. «Ci voleva proprio un gran fantino per impedire a quello Kzar di vincere.» Avevo sempre saputo, si capisce, che era una corsa truccata. Ma sentirlo dire così, dal mio vecchio, fu un colpo terribile, per me, da cui non mi ripresi nemmeno quando affissero i numeri al tabellone e suonò la campana per avvertire gli scommettitori e vedemmo che Kircubbin pagava sessantasette e cinquanta a dieci. Tutt’intorno la gente diceva: «Povero Kzar! Povero Kzar!». E io pensavo: Vorrei essere un fantino, e vorrei averlo potuto montare io invece di quel figlio di puttana. Ed era strano, pensare a George Gardner come a un figlio di puttana, perché mi era sempre stato simpatico e per giunta ci aveva dato il vincente, ma a conti fatti credo proprio che lo sia, sissignore un figlio di puttana.

Il mio vecchio era pieno di soldi, dopo quella corsa, e cominciò a venire a Parigi più spesso. Se correvano a Tremblay, si faceva lasciare giù in città mentre gli altri tornavano a Maisons, e ci sedevamo insieme davanti al Café de la Paix a guardare la gente che passava. È divertente stare là seduti. Ci sono fiumi di gente che passa e tipi di ogni genere che ti abbordano per venderti qualcosa, e a me piaceva molto stare là seduto col mio vecchio. Era in quei momenti che ci divertivamo di più. Arrivavano dei tipi che vendevano dei buffi conigli che saltavano se schiacciavi una peretta e venivano al nostro tavolo e il mio vecchio scherzava con loro. Parlava il francese proprio come l’inglese e tutta quella gente sapeva chi era, perché un fantino si riconosce sempre: e poi noi ci sedevamo sempre allo stesso tavolo e loro si abituavano a vederci là. C’erano dei tipi che vendevano bollettini di annunci matrimoniali e delle ragazze che vendevano uova di gomma dalle quali, schiacciandole, saltava fuori un gallo; e un vecchio dall’aria losca che passava con delle cartoline di Parigi, mostrandole a tutti, e nessuno naturalmente le comprava, e allora lui tornava indietro e mostrava il disotto del mazzo, ed erano tutte cartoline sconce, e un sacco di gente sceglieva quelle che preferiva e le comprava. Dio, ricordo la strana gente che passava. Ragazze che all’ora di cena cercavano qualcuno che le portasse a mangiar fuori, e si rivolgevano al mio vecchio e lui diceva qualche battuta in francese e loro mi facevano una carezza sulla testa e tiravano diritto. Una volta c’era un’americana seduta con la figlia al tavolo vicino al nostro, e mangiavano il gelato, tutt’e due, e io non facevo che guardare la bambina, che era di una bellezza straordinaria, e le sorrisi e lei sorrise a me, ma la cosa finì lì, perché io le cercavo tutti i giorni e pensavo a quali scuse trovare per parlarle e mi chiedevo se, una volta che l’avessi conosciuta, sua madre mi avrebbe permesso di portarla a Auteuil o a Tremblay, mentre non le rividi mai più, né l’una né l’altra. Comunque, credo che non sarebbe servito a niente, perché ripensandoci ricordo di essermi detto che il modo migliore per attaccare discorso consisteva nel dire: «Scusate, ma posso darvi un vincente per le corse di oggi a Enghien?», e dopo tutto forse lei avrebbe pensato che ero uno di quelli che vendono le dritte sui cavalli, invece di essere uno che voleva darle sul serio un vincente. Stavamo là seduti al Café de la Paix, io e il mio vecchio, e il cameriere ci portava in palma di mano, perché il mio vecchio beveva whisky e l’whisky costava cinque franchi, e questo significava una buona mancia quando si contavano i piattini. Il mio vecchio beveva più che mai, più di quanto lo avessi visto fare, ma allora non montava, e per giunta diceva che l’whisky gli impediva d’ingrassare. Io invece mi ero accorto che ingrassava lo stesso. Si era staccato dalla vecchia ganga di Maisons e sembrava che gli piacesse solo starsene là seduto, con me, sul boulevard. Ma ogni giorno lasciava all’ippodromo una parte dei suoi quattrini. Si sentiva un po’ depresso dopo l’ultima corsa, se quel giorno aveva perso, finché non eravamo seduti ai nostro tavolo, e allora beveva il primo whisky e stava bene. Leggeva il “Paris-Sport” e mi guardava e diceva: «Dov’è la tua ragazza, Joe?», per prendermi in giro, dal momento che gli avevo parlato della bambina di quel giorno al tavolo accanto. E io arrossivo, ma non mi dispiaceva essere preso in giro per lei. Mi dava una sensazione gradevole. «Tieni gli occhi aperti, Joe» diceva lui «tornerà.» Mi faceva un mucchio di domande e rideva, di certe cose che dicevo io. E poi si metteva a parlare. Delle corse in Egitto, o a Saint-Moritz, sul ghiaccio, prima che morisse mia madre, e di quando, durante la guerra, si facevano, nel sud della Francia, vere e proprie corse senza premi, né scommesse, né spettatori, né altro, solo per non perdere la razza. Vere corse con i fantini che spremevano al massimo i cavalli. Dio, potevo starlo a sentire per ore mentre parlava, specie dopo che aveva bevuto un paio di whisky e magari qualcuno di più. Mi raccontava di quando era ragazzo nel Kentucky e andava a caccia di procioni, e dei vecchi tempi negli States prima che andasse tutto a rotoli. E diceva: «Joe, quando avremo vinto una posta come dico io, tu tornerai là negli States e andrai a scuola». «Perché devo tornare negli States e andare a scuola se là è andato tutto a rotoli?» gli chiedevo. «Questo è un altro discorso» diceva lui, e chiamava il cameriere e pagava la pila di piattini e prendevamo un taxi per la Gare Saint-Lazare e salivamo sul treno per Maisons. Un giorno a Auteuil, dopo uno steeplechase a vendere, il mio vecchio comprò il vincente per trentamila franchi. Dovette andare un po’ su con le offerte, per averlo, ma finalmente la scuderia mollò il cavallo e il mio vecchio, in una settimana, ebbe il suo permesso e i suoi colori. Dio, come mi sentivo orgoglioso quando il mio vecchio diventò un proprietario. Si mise d’accordo con Charles Drake per un box e smise di venire a Parigi, e riprese a correre e a sudare, e lui e io eravamo tutto il personale della nostra scuderia. Il cavallo si chiamava Gilford, era di razza irlandese ed era un buon saltatore, bello ed elegante. Il mio vecchio pensava che alle’ nandolo e montandolo da sé fosse un buon investimento. Io ero fierissimo di tutto e pensavo che Gilford fosse un buon cavallo come Kzar. Era un buon saltatore, un baio, robusto e molto veloce in piano, se lo spingevi a fondo, ed era anche bello da vedere. Dio, come mi piaceva. La prima volta che partì col mio vecchio in arcione, finì terzo in una corsa a ostacoli di duemilacinquecento metri, e quando mio padre smontò, tutto sudato e felice nel recinto dei piazzati, e andò al peso, mi sentii così fiero di lui come se fosse la prima corsa in cui era riuscito a piazzarsi. Vedete, quando uno non monta da un pezzo, si stenta a convincersi che abbia davvero montato, una volta. Adesso era tutto diverso, perché a Milano pareva che nemmeno le grandi corse avessero molta importanza per il mio vecchio, e se vinceva non si entusiasmava mai, mentre adesso la situazione era tale che non riuscivo quasi a dormire la notte prima di una corsa, e sapevo che anche il mio vecchio era emozionato, sebbene non lo dimostrasse. È montare per sé che cambia tutto. La seconda volta che corsero, Gilford e il mio vecchio, era una piovosa domenica a Auteuil, nel Prix du Marat, uno steeplechase di quattromilacinquecento metri. Come fu in pista scappai su in tribuna col binocolo nuovo che mi aveva comprato il mio vecchio perché potessi seguire la loro corsa. Partivano lontano, dalla parte opposta dell’ippodromo, e ai nastri c’era un po’ di agitazione. Un cavallo con i paraocchi faceva una grande confusione e s’impennava e ruppe una volta la barriera, ma io vedevo che il mio vecchio, nella nostra giubba nera con la croce bianca e col berretto nero, si alzava sulla sella e carezzava Gilford con la mano. Poi partirono di scatto e scomparvero dietro gli alberi e il gong suonava disperatamente e con grande fragore si chiudevano gli sportelli del totalizzatore. Dio, ero tanto emozionato che non avevo il coraggio di guardarli, però puntai il binocolo nel punto dove dovevano uscire da dietro gli alberi, e da dietro gli alberi uscirono, con la vecchia giubba nera al terzo posto, volando tutti come uccelli sopra sull’ostacolo. Poi scomparvero di nuovo e poi riapparvero, precipitandosi giù per la di’ scesa, e correvano tutti insieme con scioltezza, rapidi e leggeri, e tutti insieme saltavano l’oxer, senza fatica, e formando un gruppo compatto si allontanavano. Sembrava gli si potesse camminare sulla schiena, tanto erano vicini e tanto tranquilla era la loro andatura. Poi s’innalzarono sulla doppia siepe e uno cadde. Non riuscii a vedere chi fosse, ma in un attimo il cavallo era in piedi e galoppava, libero, mentre gli altri, sempre in gruppo, affrontavano la lunga curva a sinistra prima del rettilineo. Saltarono il muretto e tutti insieme vennero giù per la pista verso la grande riviera proprio davanti alle tribune. Li vidi arrivare e incoraggiai a gran voce il mio vecchio mentre passava, ed era in testa lui di circa una lunghezza e guadagnava, agile come una scimmia, e correvano tutti verso la riviera. Tutti insieme spiccarono il salto sopra la grande siepe della riviera e allora ci fu uno scontro, e due cavalli uscirono dall’ostacolo di traverso, e continuarono a correre, e altri tre caddero l’uno addosso all’altro. Non vedevo più il mio vecchio. Un cavallo si mise in ginocchio e si rialzò, e il fantino lo prese per le redini, balzò in sella e partì verso il traguardo, inseguendo la borsa dei piazzati. L’altro cavallo si alzò e andò via per conto suo, scuotendo la testa e galoppando a briglia sciolta, mentre il fantino si portava barcollando ai margini della pista e si appoggiava allo steccato. Poi Gilford si girò su un fianco, scoprendo il mio vecchio, e si alzò e si mise a correre su tre zampe, con lo zoccolo anteriore penzoloni, e il mio vecchio era là sull’erba, lungo disteso, con la faccia rivolta al cielo e un lato della testa tutto coperto di sangue. Corsi giù dalla tribuna e mi ficcai nella calca e raggiunsi il parapetto e un poliziotto mi afferrò e mi trattenne, mentre due grossi barellieri correvano verso il mio vecchio e, dall’altra parte della pista, tre cavalli, sgranati, uscivano dagli alberi e saltavano l’ostacolo. Il mio vecchio era morto quando lo portarono dentro, e mentre un dottore gli ascoltava il cuore con un aggeggio infilato nelle orecchie udii uno sparo in fondo alla pista che significava che avevano ucciso Gilford. Mi gettai sul mio vecchio, quando portarono la barella nella sala dell’infermeria, e mi aggrappai alla barella e piansi senza freno, e lui appariva così pallido e stanco e così morto, così spaventosamente morto; e non potevo far a meno di pensare che se il mio vecchio era morto forse non c’era stato nessun bisogno di sparare a Gilford. Il suo zoccolo avrebbe potuto guarire. Non so. Gli volevo tanto bene, al mio vecchio. Poi entrarono due uomini e uno mi batte la mano sulla spalla e poi si avvicinò e guardò il mio vecchio e poi prese un lenzuolo dal lettino e glielo stese sopra; e l’altro stava telefonando, in francese, che mandassero l’ambulanza per portarlo a Maisons. E io non riuscivo a smettere di piangere, di piangere e di morire soffocato, quasi, e poi entrò George Gardner e si sedette accanto a me sul pavimento e mi cinse le spalle con un braccio e dice: «Su, Joe, vecchio mio. Alzati e andiamo fuori ad aspettare l’ambulanza». Io e George uscimmo e ci fermammo davanti al cancello, e io cercavo di smettere di frignare e George mi asciugò la faccia col suo fazzoletto e stavamo un po’ indietro mentre la folla usciva dal cancello e due tizi si fermarono accanto a noi mentre aspettavamo che la folla uscisse dal cancello e uno dei due stava contando un pacco di tagliandi del totalizzatore e disse: «Be’, Butler ha avuto il fatto suo». L’altro disse: «Non m’importa un accidente di quell’impostore. Ben gli sta, con tutti gli imbrogli che ha fatto». «Lo dico anch’io» disse l’altro, e stracciò in due il fascio di tagliandi. E George Gardner mi guardò per vedere se avevo sentito e io avevo sentito benissimo e lui disse: «Non badare a quello che hanno detto quei fannulloni, Joe. Il tuo vecchio era un uomo in gamba». Ma io non lo so. Si direbbe che una volta cominciato non vogliano lasciarti proprio nulla

 

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Buckpasser, una formidabile macchina da corsa raccontata per noi da Paolo Allegri (video).

Schermata 2020-05-08 alle 16.36.34.pngUna nuova puntata delle storie dei grandi cavalli. Ecco il bellissimo Buckpasser.

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di Paolo Allegri

La stagione 1965 del galoppo americano, nel circuito dei due anni, rivelò un puledro di bellissimo modello, Buckpasser. Figlio di Tom Fool, un vincitore di handicaps con pesi proibitivi, e di Busanda, una cavalla della linea di La Troienne, madre base dello stud statunitense, tra l’estate e l’autunno questo baio dal collo lungo e sottile, una bella spalla e un posteriore altissimo, disputò 10 corse, vincendone otto. Buckpasser in quella carriera giovanile scese in pista nelle canoniche prove di selezione del galoppo americano. In luglio vinse le Tremont Stakes, la prova da cui sono passati assi come Man O’War e Alydar. Quindi si confermò nelle Sapling, la corsa che rivelò Hail To Reason e confermò le ambizioni di Alydar. In agosto il portacolori di Phipps proseguì in questa splendida carriera dei due anni affermandosi nelle Hopefull, nel cui albo d’oro figurano fuoriclasse del calibro di Man O’War, Native Dancer, Secretariat e Affirmed. In settembre altro successo nell’Arlington Washington Futurity seguito dal secondo posto nelle Futurity. Chiusura di un’intensa stagione a due anni con il ritorno alla vittoria nelle qualificanti Champagne, la prova di gruppo che legittimò le ambizioni di Seattle Sew, un vincitore della Triplice Corona.

Il nipote di War Admiral (padre della madre) all’inizio della stagione dei tre anni vinse a fatica le Flamingo Stakes ad Hialeah Park. L’allenatore Eddie Neloy pretese una visita accurata del puledro e Buckpasser, infatti, presentò un’incrinatura all’interno dello zoccolo anteriore destro. Un contrattempo che gli fece saltare l’intera stagione classica. Il figlio di Tom Fool fu messo a riposo e rientrò a Belmont Park il giorno dell’ultima prova della Triplice Corona. Vinse un handicap non importante. Successivamente, rientrò nel salotto buono del galoppo a stelle e strisce conquistando le Leonard Richards, l’Arlington Classic (battendo Kauai King dal quale riceveva mezzo chilo e stabilendo il nuovo record del mondo sul miglio: 1’32” e 3/5). La serie proseguì riportando il Chicagoan (precedendo quell’ Abe’s Hope dal quale aveva rischiato di perdere nelle Flamingo), il Brooklyn e l’American Derby. A fine stagione, in ottobre, ancora un successo prestigioso sulle due miglia della Jockey Club Cup di Aqueduct. A quattro anni vinse il Metropolitan Handicap con 62 chili e mezzo. Venne ritirato in razza contando venticinque successi e due secondi posti su trentuno uscite, per complessivi dollari 1.462.014. L’enorme struttura fisica gli è stata dannosa da stallone, almeno nelle prime annate, coi prodotti maschi, mentre le femmine, di modello più gentile, hanno assorbito la potenza in maniera utile. Citiamo per tutte Numbered Account ( miglior puledra della stagione 1971 e della stessa famiglia del vincitore del Kentucky Derby 2014 California Chrome) e La Prevoyante, cavalla dell’anno in Canada nel 1972.  Nel pedigree di Buckpasser di rilievo l’apporto di La Troienne, che dopo modesta e breve carriera in Francia fu importata negli Stati Uniti e si affermò come madre base. Il suo nome si trova nelle genealogie di molti campioni americani. Non solo Buckpasser ma anche il vincitore dell’Arc Pearl Cap (figlio di quella Pearl Maiden che compare nella linea femminile dell’italiana Maggiolina, la madre di Molvedo) e il francese Pearl Diver, laureato del Derby inglese del 1947. E pensate che questo fil rouge tra America, Francia e Italia nelle linee di sangue del galoppo internazionale origina dagli anni Trenta ed ha come approdo  quell’Arc de Triomphe del 1961 che Molvedo, figlio di Ribot vestito della casacca rosso-cremisi della Razza Ticino, vinse con un grande allungo finale.

Vedete quanto sia appassionante viaggiare nelle alchimie e nei punti di contatto delle genealogie del purosangue. Un bagaglio di conoscenza sconfinato e sempre da rinnovare nel valore prezioso, fondamentale di cultura e tradizione.

 

Bicocchi, come tutti aspetta la ripartenza e scalpita per ritornare in concorso.

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Roberta Lar & Greta Milesi

Cavalieri e dintorni

Il cavaliere azzurro in grande spolvero, come tutto il movimento equestre, ha dovuto interrompere l’attività in un momento di successi, ma pronto a riprendere un cammino già ricco di soddisfazioni.

Il Capo Aviere scelto, classe 1976, Emilio Bicocchi, nel 2016 varca il gradino più alto del podio ad Arezzo del Campionato Italiano salto ostacoli insieme al suo compagno Sassicaia Ares, già vincitore del titolo nel 2009 con Kapitol d’Argonne e nel 2005 in sella a Landrù. Tre volte campione italiano assoluto.

Inizia a montare a cavallo a 6 anni ma è con Ugolino che a 10 calpesta i primi campi gara nazionali mentre è Inedito del Terriccio il cavallo che lo accompagna a 13 anni al primo concorso internazionale a Vichi.

Con l’arrivo di Kapitol d’Argonne il gioco comincia a farsi serio, vanta la partecipazione a due campionati del mondo, ad Aquisgrana nel 2006 e a Lexington nel 2010, e un Gran Premio allo CSI cinque stelle di Madrid nel 2010. Un grande cavallo sotto la sella di un sempre più grande Emilio.

Sassicaia Ares, cavallo dal grande temperamento, ed Emilio Bicocchi, consolidano un rapporto simbiotico che li porterà a ottenere risultati straordinari, come la prestazione nel Grand Prix di Spruce Meadows, evento conclusivo del CSIO5* di Calgary, in Canada dove Emilio sfiora il podio. Diventa uno dei cavalieri di riferimento della compagine italiana.

Gentile e attento al bene fisico e psicologico dei suoi cavalli, Emilio intravede nella giovane figlia di Verdi, Evita SGZ, una cavalla con caratteristiche tali da meritare la sua attenzione. E infatti il fiuto non si era ingannato. Sotto la sua guida la trasforma in un’atleta veloce, attenta e collaborativa.

Se montare a cavallo è alla portata di molti creare un’intesa è già di per se una vittoria. Il neo binomio partecipa alle più prestigiose competizioni di coppa delle nazioni, coppa del mondo, e molto altro. Solo il Covid-19 e il conseguente rinvio di tutte le competizioni sportive ne ha fermato l’entusiasmante ascesa sportiva.

Quando il talento si combina con il lavoro, la pazienza e la sensibilità questi sono i risultati, Emilio Bicocchi un campione di cui andare fieri.

Stiamo vivendo un momento difficile sia dal punto di vista sanitario che emotivo. Siamo costretti a vivere confinati in casa senza poter andare dai nostri cavalli, e loro devono far a meno di noi e delle nostre attenzioni.

Scheda

  1. Nome, regione di provenienza-Toscana, aeronautica militare
  2. Cavallo di punta-Evita Sgz
  3. Cavallo del cuore-Kapitol d’Argonne e Sassicaia Ares
  4. Una curiosità sul tuo cavallo di punta-riconosce il suo Groom, Josef, dalla camminata quando entra in scuderia e lo chiama.
  5. Cinque cavalli di cavalieri stranieri e/o italiani che vorresti montare-Alice, Cloney, Fit For Fun, Cornetto, Ottava meraviglia
  6. Il concorso più bello al quale hai partecipato-Napoli, Piazza del Plebiscito
  7. La gara più importante-Campionati del Mondo
  8. La vittoria più sentita-Madrid 5*
  9. Una gara sfortunata-finale LAS Vegas di questo anno ( non svolta)
  10. Superstizioso? Oggetto portafortuna?-Non particolarmente
  11. Obiettivi per il futuro-)in questo momento è lo stesso per tutti:
    La ripartenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Princequillo, il fondatore dell’ippica americana. Di Paolo Allegri

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Paolo Allegri

Con Man o’ War è il fondatore dell’allevamento del purosangue in Usa. Il principale continuatore di St Simon

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Princequillo, un baio nato nel 1940, per quella linea originata da Persimmon e che si sviluppa sulla coordinata Prince Palatine – Rose Prince – Prince Rose, ha rappresentato un punto di forza dello stud statunitense, una vera e propria colonna per l’equilibrio meraviglioso del suo pedigree e una eccezionale resa in razza. Princequillo è il capolavoro di Prince Rose, associato nella linea femminile a forti contributi di Papyrus, grande padre di fattrici, Gallinule – il padre di Pretty Polly – e Minoru. Nato in Inghilterra, trasferito negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale, il nipote di Papyrus esordisce in una corsa a reclamare, ma ben presto denota la sua grande tenuta e sfiora il record sui 2800 in 2’56” e 1/5, poi percorre i 2600 in 2’43”. Nel modello ricordava suo padre Prince Rose, ma con proporzioni più ridotte, spalla ampia e poderosa e un posteriore muscolatissimo. In pista i suoi successi più importanti furono la Jockey Club Gold Cup e il Saratoga Handicap. Se in Europa la dinastia dei principi si affermava con Prince Chevalier (padre del laureato del Derby di Epsom Artic Prince) e Prince Bio (genitore di due vincitori di Derby francese come Sicambre e Le Petit Prince, di un laureato di Paris come Northern Light, del derbywinner italiano Sedan e di Prince Taj, da cui Prince Tady, vincitore del nostro Gran Criterium), negli Stati Uniti Princequillo produceva nel giro di alcune stagioni vincitori di 1703 corse per oltre 13 milioni di dollari. Tra i suoi migliori eredi svetta Round Table. Allevato dalla Claiborne Farm nel Kentucky, questo baio nato nel 1954 è stato un grande corridore  che ha saputo unire una straordinaria velocità a un mix tra la classe e la tempra di lottatore. Ha corso da due a cinque anni vincendo quarantatre volte su sessantasei sortite. Con un totale di 1.749.869 dollari, Round Table è uno dei maggiori vincitori di sempre negli Stati Uniti. I figli di Princequillo risultano solidi, consistenti, tenaci, già ottimi a due anni e resistenti a tre e a quattro. I migliori soggetti provengono da giumente discendenti da Nearco. Con la linea di The Tetrarch, che apportava precocità e speed, Princequillo ha dato Prince John, autore di una splendida campagna americana a due anni, vincitore delle Garden State Stakes, delle Remsen e delle Sanford, secondo nel Washington Park Futurity. Con la linea di Mahmoud ( vincitore del Derby di Epsom e genitore della seconda madre di Northern Dancer), Princequillo ha dato Misty Flight, campionessa a tre anni, Misty Morn (Monmouth Oaks) e Pèrizade. Con la linea di Man O’War ha generato Blue Prince che a sua volta ha dato Prince Tenderfoot.

Questa ecletticità di Princequillo, questo sposarsi bene con linee di sangue diverse, è frutto anche di un grande quadro genealogico nel quale spiccano la presenza del vincitore del Derby di Epsom 1923 Papyrus, nipote di Rock Sand, laureato della Triplice Corona inglese del 1903 e genitore della madre di Man O’War.  Princequillo in razza ha rappresentato la realizzazione del sogno americano, un formidabile razzatore sia come padre di maschi grandi in corsa e ottimi stalloni, sia come fantastico padre di fattrici. Le figlie di Princequillo sono grandi madri, spesso generano crack assoluti come Secretariat (la madre è Somethingroyal) o campioni affascinanti e amatissimi come Mill Reef (Milan Mill la genitrice). Questo viaggio nel grande allevamento americano ci ha portato sulle tracce di linee di sangue superbe, campioni assoluti che in epoche diverse hanno alimentato il sogno di produrre un crack, il galoppatore capace di passare di vittoria in vittoria e accendere la fantasia della gente. E realizzare un prodigio: perfino prendere il cuore di un Hemingway o di un Bukowski in quella meraviglia della vita tra le corse, i cavalli, gli ippodromi, le bevute, le donne e uno strepitoso materiale letterario.

 

Luca Marziani, l’intrepido!

Nella foto di apertura Luca Marziani in una celebre immagine durante un salto

Curiosità: Cavalli&Cavalieri : LUCA MARZIANI

Roberta #Lar

#LucaMarziani, nato a Civita Castellana nel 1980, vive a Roma ed è un cavaliere di salto ad ostacoli. Ha cominciato a montare alla tenera età di 6 anni, a 16 anni ha poi tramutato la sua passione in professione ed è grazie a questo suo smisurato talento e ai tanti sacrifici che è diventato il campione italiano in carica che noi tutti conosciamo. Monta con la divisa dell’aeronautica italiana ed è uno dei maggiori cavalieri di spicco nel panorama internazionale per le sue incredibili performance nei campi di gara più prestigiosi del mondo.

Nel 2018 la sua vittoria più sentita, il gradino più alto del podio nella prestigiosa Coppa delle Nazioni di Piazza di Siena festeggiata anche da una esuberante rallegrata di Tokyo che si congratula con se stesso per il magnifico doppio zero.

Virale la sua immagine sull’ultimo oxer del campionato italiano salto ostacoli, dove il nostro Aviere Capo in sella al fenomenale #TokyoduSoleil trasgredendo alla iconica immagine del perfetto cavaliere infiammando gli spalti con quell’esplosione di felicità gradita a tutti gli appassionati.

Attualmente opera come direttore tecnico e istruttore di terzo livello presso la S.I.R. La Farnesina, dove insegna e allena binomi di interesse federale.

11 DOMANDE A LUCA MARZIANI

  1. Nome, regione di provenienza.

LUCA MARZIANI LAZIO AERONAUTICA

  1. Cavallo di punta

TOKYO DU SOLEL (fino a poco tempo fa)

  1. Cavallo del cuore

Tokyo du Soleil

  1. Una curiosità sul tuo cavallo di punta

Emotivo e molto intelligente

  1. Cavalli di cavalieri stranieri e/o italiani che vorresti montare

Explosion, Clooney, Bianca, Alice (campionessa del mondo)

  1. Il concorso più bello al quale hai partecipato

Piazza di Siena

  1. La gara più importante

Weg Tryon campionato del mondo

  1. La vittoria più sentita

Coppa delle nazioni a Piazza di Siena (primo posto)

  1. Una gara sfortunata

Tantissime

  1. Superstizioso? Oggetto portafortuna?

Abbastanza superstizioso, gesti che ripeto prima di

Cominciare il percorso

  1. Obiettivi per il futuro

Lavorare per una medaglia olimpica

Luca sta lavorando nuovi cavalli e noi gli auguriamo di ritrovare un nuovo compagno di avventura come l’indimenticabile Tokyo du Soleil al quale auguriamo tutto il successo insieme al suo nuovo giovane cavaliere.

Ringraziamo per gli highlight e ci auguriamo di rivederlo al più presto in concorso.

#Schiavolin giù le mani da #Grizzetti

nella foto un momento di una corsa in Inghilterra. Si noti la giubba da corsa di SMR la Regina.

Claudio Gobbi

In un momento straordinario e gravissimo per il Paese Snaitech guidata dall’ineffabile #Schiavilin mette in mezzo a una strada uno dei maggiori trainer del galoppo nazionale. Una vera e propria vergogna.

https://coordinamentosansiro.it/

La scomparsa di una grande dell’ippica, Ludovica Albertoni.

Nell’immagine di apertura la genealogia del vincitore del Gp Merano, di proprietà di Ludovica Albertoni

E’ scomparsa ieri 27 aprile la Nobildonna Ludovica Albertoni di Val di Scalve un nome storico della dell’alta società Milanese, (era imparentata con i Pirelli), e altrettanto storico dell’ippica nazionale. A lei il saluto di Chavalier. net in un breve omaggio di una sua cara amica, Adriana Felli.

Adriana Felli

Di Ludovica ci sarebbe moltissimo da raccontare dato il grande impegno che la distingueva nelle molteplici attività inerenti al l’ippica.  Era la maggiore di 4 sorelle, lei ed altre due, Anna e Sofia, sono state grandissime amazzoni che hanno corso anche in Steeple  e in cross a Merano. Le ho conosciute e frequentate perché avevano i cavalli per le cacce alla volpe in scuderia da mio padre che le preparava per i cross in brughiera qui a Casorate Sempione dove abito, tuttora. E’ stata per anni anima importante della Società Milanese Cacce a Cavallo e presidente dell’associazione Gentlemen Rider. Ludovica ha avuto ottimi cavalli da corsa, lei ha vissuto per questa sua passione, e ha avuto anche la grande soddisfazione di avere vinto Il Gran Premio di Merano con Halling Joy, allenato da Paolo Favero e montato dall’asso dei fantini d’ostacoli, Raffaele Romano.

Lascia un grande vuoto . Aggiungendo che desidero immaginarla galoppare in compagnia di tanti cari amici che l’hanno preceduta. Un bacio cara Ludo.

 

Storie di cavalli sulle pagine dei libri. Canterwood Crest.

Nell’immagine di apertura a sx l’autrice della serie Jessica Burkhart e la copertina di uno dei suoi racconti

Una raccolta di storie di cavalli e cavalieri. Un’adolescenza a cavallo di libri: la serie in inglese per ragazzi che amano montare: #Canterwood Crest, ideata da J#essica Burkhart. 

di #Greta Milesi

“La lettura è il viaggio di chi non può prendere un treno” – Francis de Croisset

Sono convinta ormai da anni che siamo, in realtà, tutti grandi lettori. Da quando sono bambina credo che, per tutti coloro che non amano leggere, esista da qualche parte il libro e la storia che li farà finalmente innamorare della lettura. Alcuni sono più fortunati e incontrano facilmente questo libro, altri lo devono cercare un po’ di più. È esattamente per questo motivo che, e chi mi conosce lo sa fin troppo bene, suggerisco da sempre libri a chiunque mi vuole stare a sentire! Oggi mentre scrivo penso a tutti i giovani adolescenti a cui mancano i cavalli e i maneggi. È proprio per loro che vi consiglio questi libri, con la speranza che magari qualcuno possa trovarvi il libro che lo farà diventare finalmente un gran lettore.

Jessica Burkhart, autrice americana per ragazzi, ha fin da piccola un forte amore per il mondo equestre. Cresciuta a pochi passi da un maneggio, si innamora presto dei cavalli, inizia a montare a otto anni e sogna, un giorno, di far parte della squadra nazionale. Quando da più grande scopre anche il mondo della scrittura, decide di rimboccarsi le maniche, prendere in mano le redini e dedicarsi ai libri che conquisteranno tantissimi giovani in tutto il mondo: la serie di Canterwood Crest.

Con i suoi diciotto libri, Burkhart regala ai giovani tantissime avventure. Insieme alla protagonista Sasha Silver e il suo amato cavallo Charm, il lettore del primo libro della serie, ‘Canterwood Crest: Take the Reins’, si trasferisce nella prestigiosa Canterwood Crest Academy. Qui, Sasha inizia una nuova vita. Tra nuovi compagni, amicizie, professori e allenatori, l’unica costante è l’amore per l’equitazione e il bellissimo Charm.

Quella di Canterwood Crest è un serie avvincente che riesce ad abbracciare sia il mondo dei giovani adolescenti che quello equestre. Il lettore affronta con Sasha non solo allenamenti e concorsi ma anche diatribe tra amiche, la prima cotta e la determinazione di chi vuole realizzare i propri sogni.

Questi libri, disponibili su Amazon sia in versione cartacea che digitale, sono stati scritti per ragazzi madrelingua inglese dai 9 ai 12 anni. Non sono purtroppo stati tradotti in italiano. Tuttavia, questo presenta un’ottima opportunità. Infatti, data la particolare attenzione a un mondo di giovani adolescenti e un linguaggio semplice da seguire, queste storie potrebbero essere la ricetta perfetta per chi, anche se un po’ più grande, vuole migliorare il proprio inglese.

Mentre il Coronavirus continua a tenere noi e i nostri figli confinati nelle mura di casa, lontani da scuola, amici e dai tanto amati maneggi e cavalli, questa serie può essere di grande aiuto. Con dei libri che potrebbero aiutare a migliorare il loro inglese, la Burkhart regala ai nostri figli la possibilità di sentirsi ancora una volta vicini al tanto amato mondo equestre. “La lettura è il viaggio di chi non può prendere un treno” scriveva Francis de Croisset. Ecco, al momento un treno noi purtroppo non lo possiamo prendere. Usciremo dalle nostre case, torneremo a viaggiare e torneremo a montare, ma, nel frattempo, prendiamo in mano un bel libro e viaggiamo tra pagine e parole, ci aspettano mille fantastiche avventure!

Allez France vs Dahlia: un duello infinito. Ce lo racconta Paolo Allegri (video vittoria Allez France Arc 1974).

Nella foto di apertura. A sx Allez F5ance con St Martin, a dx Dahlia con Piggot

di Paolo Allegri

A sx Allez France, a dx Dahlia

Grandi femmine del galoppo mondiale raccontate da Paolo Allegri in esclusiva per Chavalier.net

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Qui sopra il francobollo commemorativo che la Francia ha voluto dedicare alla campionessa di Daniel Wildenstein.

Il video della vittoria di Allez France nell’Arc del 1974

Sportivamente il 1974 è l’anno dei mondiali tedeschi di calcio con la Germania che batte in finale l’Olanda per 2 a 1 in un’edizione dei campionati del mondo che segna nel calcio la ‘rivoluzione’ dei tulipani con il calcio totale. Ma anche l’ippica in quell’anno vive momenti di grandi imprese, soprattutto sui palcoscenici più prestigiosi, quello di Ascot per le King George, in luglio, e tra le quinte rosseggianti del Bois nell’autunno del parigino Arc. Quel 1974 è segnato dal dominio di due grandi femmine, Dahlia e Allez France.

Con un punto di contatto, entrambe nate in America. La saura Dahlia, figlia del laureato dell’Arc Vaguely Noble, a tre anni aveva vinto il St. Alary, le Oaks irlandesi su Mysterious (da Crepello) e le King George di Ascot su Rheingold e Our Mirage. La sua stagione 1973 si era conclusa con una trasferta negli States dove aveva dominato il D.C. International di Washington, allora un mondiale di fine annata. La baia Allez France, allevata dal Bieber-Jacobs Stable e di proprietà di Daniel Wildenstein, era nata nella porpora, essendo erede del crack Sea Bird, laureato di Derby di Epsom e di Arc e della campionessa americana Priceless Gem, una che in carriera aveva sconfitto uno dei più grandi galoppatori statunitensi di sempre, Buckpasser. Nella campagna giovanile e nel circuito classico dei tre anni, affidata in training ad Albert Klimscha, aveva centrato diverse prove élitarie: il Criterium de Pouliches, la Poule d’essai, il Prix de Diane, il Prix Vermeille, finendo seconda nell’Arc 1973. Nelle lunghe serate invernali del 1974, gli appassionati già pregustando le grandi sfide nei templi di Ascot e Longchamp, si dividevano tra Dahlia, che dopo il trionfo americano sarebbe tornata in Europa, e Allez France, che nel frattempo aveva cambiato allenatore, passando in training ad Angel Penna. Le due campionesse a tre anni si erano affrontate due volte, sempre con esito favorevole ad Allez France: in primavera nella Poule d’Essai des pouliches, con Dahlia terza, e in giugno nel Prix de Diane, con le due regine del galoppo mondiale prima e seconda di quel mondano appuntamento a Chantilly. In sella alle due eroine di quella stagione di mezzo dei Settanta, c’erano due jockey di formidabile talento e longevità: Lester Piggott su Dahlia, mentre Yves Saint Martin era l’interprete di Allez France. Un fattore che aggiungeva ulteriore paprika ad una sfida di per sé già appassionante tra due meravigliose cavalle da corsa. Dahlia, tornata dalla trasferta americana, stentava a ritrovare la forma. Così Allez France ebbe vita facile nelle prime prove primaverili del 1974, vincendo l’Harcourt sui 2000 (Dahlia si classificò quarta) e bissando nel Ganay sui 2100, con Dahlia quinta. In estate la figlia di Vaguely Noble ritrovò i suoi motivi migliori e Allez France la evitò, con Angel Penna che aveva segnato sul calendario nella prima domenica di ottobre, quella dell’Arc, l’appuntamento da non perdere.  Così Dahlia passò di vittoria in vittoria, dal Grand Prix de St. Cloud alla Benson and Hedges Gold Cup di York, riportata con superiorità assoluta. La saura nata nel 1970 da quel Vaguely Noble che aveva riportato in auge la linea di Hyperion e di suo figlio Aureole, tentò anche le King George e le vinse in maniera travolgente su Highclere.

In preparazione alla grande corsa di ottobre al Bois de Boulogne, le due finalmente si incontrarono di nuovo nel Vermeille e vinse ancora Allez France, proiettata verso l’Arc. Quando la prediletta di quel grande e colto turfman di nome Daniel Wildenstein sembrava avviata verso un facile trionfo, ecco il colpo di scena: il suo fantino, l’amatissimo da tutti i francesi Yves St. Martin, genio tattico e straordinaria capacità di concentrazione, al venerdì cadde in corsa, senza gravi conseguenze ma con qualche acciacco. Così la domenica, quel jockey formidabile con gli antidolorifici, montò solo la regale figlia di Sea Bird. La retta fu particolare, con Allez France in fuga anticipata, quasi scappando di mano al suo interprete che non poteva comandarla al meglio. Ma c’era una Nazione intera, che alla vigilia l’aveva appoggiata con un ticket al PMU, a spingere una campionessa che con la sua classe immensa centrò l’obiettivo, acclamata dalla folla al rientro così come si fa con le Regine che rubano il cuore e l’anima perché hanno in un fascino irresistibile il proprio segno distintivo. Allez France e Dahlia, le straordinarie protagoniste di una stagione irripetibile, quel 1974 del galoppo dominato dalle femmine.

 

Gay Lussac vs Tierceron. Cieffedi contro Dormello. Il grande Derby del ’71.

Nella foto di apertura il dormelliano Tierceron a sx e Gay Lussac a dx. Qui sotto le genealogie di Gay Lussac as e Tierceron a dx

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di Paolo Allegri

Un nuovo racconto dell’impareggiabile Paolo Allegri ci racconta di una sfida storica tra due grandi cavalli e tra due grandi scuderie. Purtroppo Gay Lussac e Tierceron in razza furono nulli

Nell’autunno del 1970 la stagione italiana del galoppo rivela tra i puledri un soggetto di eccezionale slancio e dallo scatto irresistibile, Gay Lussac, imbattuto in 4 corse disputate. Allevato da casa Barbieri, questo sauro che veste la giubba della Cieffedì viene portato da Dettori al successo nel Criterium Nazionale. Quindi la replica, in un contesto importante, come quello internazionale del Gran Criterium dove il due anni da Fabergé II batte un ottimo rappresentante americano, French Pilot. Il capofila giovanile con il passaggio d’età confermò talento e un’acquisita maturità tecnica, atletica e mentale. Nel Premio Emanuele Filiberto, il passaporto verso la grande primavera romana, ne confermò qualità rafforzando le ambizioni e la convinzione nel team. In aprile il dormelliano Tierceron aveva vinto in stile importante a San Siro il Trivulzio, meritandosi dunque il titolo di sfidante di Gay Lussac nel Derby. Sul miglio e mezzo delle Capannelle si sarebbe assistito ad una corsa di cui tra appassionati e addetti ai lavori si discuteva fin dall’inverno,

il Nastro Azzurro. La sfida tra il beniamino della folla (Tierceron) e il favorito dei tecnici (Gay Lussac) fu esaltante, tanto che quell’edizione del 1972 del Derby italiano del galoppo rimane una delle più belle. Tierceron, vestito del biancorosso con croce di Sant’Andrea di Dormello, era un atleta dal passo poderoso ma senza cambio di marcia; disputò una corsa coraggiosa tutta in avanti, mentre le mani di velluto di Sergio Fancera avevano optato per un’interpretazione all’attesa di Gay Lussac. Proprio nel tratto conclusivo passò definitivamente Gay Lussac, per la gioia di Fancera e dell’avvocato Carlo D’Alessio. Aveva prevalso lo spunto folgorante che quel sauro ben costruito aveva ereditato da Nasrullah, il faro della carta genealogica di questo derbywinner. Che tentò anche, nella visione mercuriana dell’Avvocato, le King George di Ascot vinte da Brigadier Gerard. Gay Lussac chiuse al quinto posto, correndo con onore. Il padre di Gay Lussac era Fabergè che fu secondo nelle Ghinee e in razza diede Rheingold, vincitore di Arc e secondo del Derby di Epsom 1972, sconfitto da una magia di Lester Piggott. Fabergè era figlio di Princely Gift, che fu secondo nelle July ed è il padre di Floribunda (famiglia di ottimi performer  italiani come Veio, Donato Bramante e, attraverso Furibondo, Ovac, miglior cavallo in Italia nel 1976 sulle distanze dai 1000 ai 1600 metri). La particolarità del pedigree di Gay Lussac è un tre per tre su Nasrullah attraverso Red God, il padre della madre.
IL FONDAMENTALE RAMO DI NASRULLAH – Quello di Nasrullah tra i continuatori di Nearco è un ramo fondamentale nella selezione dei grandi campioni del galoppo mondiale. Nasrullah, che vinse le Champion, è un figlio di Nearco con una sezione materna di alto profilo che ha come terminale la madre Mumtaz Begum, griffe Afa Khan. Si tratta di una Blenheim che aveva come madre quella Mumtaz Mahal che in quanto erede di The Tetrarch, uno dei migliori due anni di sempre, apporta alla linea brillantezza, costante di tutti i consanguinei e arrivata fino a Gay Lussac e quel formidabile spunto nel finale del Derby 1972.  La famiglia di Nasrullah è una delle più influenti della storia del turf. E’ il padre di Musidora (Ghinee e Oaks), Belle of All (Ghinee), Nearula (Ghinee, St, James e Champion), Zucchero (stayer laureato di Coronation Cup), e tantissimi altri tra i quali qui citiamo Tutankhanem (il padre della nostra Batavia laureata delle Oaks), Nathoo (Irish Derby), l’Aga Khan Noor (Santa Anita Handicap, Jockey Club Gold Cup) e padre di Yours, che vinse il De Gheest. Questa storia tra le corse e le genealogie dei galoppatori è solo una sintesi, in quanto l’avventura dello studio delle carte delle famiglie del purosangue è un viaggio infinito e pieno di fascino.
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