Ippica: quali le prospettive con il governo Draghi. Il convegno organizzato on line dal comitato Italia Viva Ippica Equitazione Milano

Santorre di Santarosa

Presentiamo la proposizione del convegno organizzato dal Comitato Ippica Equitazione Milano che si terrà on line il prossimo 15 marzo a cui interverrà l’onorevole Maria Chiara Gadda capogruppo di Italia Viva in commissione agricoltura della Camera che ha proposto una riforma del settore che ha già avviato il suo iter parlamentare.

Ippica Equitazione Milano (https://www.italiaviva.it/265907)

Presentazione dell’iniziativa

Un Nuovo Inizio atto secondo: l’ippica del Covid-19 e del Governo Draghi

Interviene la capogruppo di Italia Viva in commissione agricoltura della Camera dei Deputati onorevole Maria Chiara Gadda

Milano 15 marzo app ZOOM

Dopo il primo convegno sul mondo ippico ed equestre, il Comitato Ippica Equitazione Milano aderente a Italia Viva, propone una seconda iniziativa, a partire dal cambio della guardia a palazzo Chigi, susseguente alla caduta del governo Conte e all’insediamento del nuovo esecutivo guidato dal professor Mario Draghi. Con un nuovo inquilino del Mipaaf, Stefano Patuanelli (5Stelle) che sostituisce Teresa Bellanova di Italia Viva.

Quale potrà essere dunque il destino del settore ippico ed equestre? E’ questa la principale domanda a cui dovrà rispondere il convegno attraverso un confronto ampio tra le principali componenti del settore, il mondo dell’allevamento, quello delle imprese, e quello in cui si svolgono le competizioni, vale a dire gli ippodromi. Senza dimenticare le figure professionali che sono coinvolte nella filiera ippica ed equestre, veterinari, personale di scuderia, trainer, istruttori di equitazione, oltre a federazioni e associazioni ippiche ed equestri.

Il contributo decisivo a questa interrogativo verrà dato dall’onorevole Maria Chiara Gadda, capogruppo di Italia Viva in commissione agricoltura della Camera dei deputati. Che ha elaborato una proposta di legge sull’ippica, che dovrebbe essere risolutiva di problematiche che ormai si trascinano da alcuni lustri senza che il settore stesso, e la politica abbiano trovato soluzioni per fermare il decadimento di un mondo che ha dato ai natali a Federico Tesio e a Graziano Mancinelli.

L’iniziativa è organizzata dal Comitato Italia Viva Ippica Equitazione Milano, coordinato dal giornalista Claudio Gobbi titolare dal blog Chavalier.net

Info cg.gobbi@gmail.com – 338.6100948

Pubblicità

Chavalier.net: auguri All ippica è a tutti coloro che lottano per essa.

È stato un anno molto difficile ma Chavalier.net ha lavorato per il bene di questo mondo. Un mondo difficile, nn amato dalle istituzioni, derubato della sua grande memoria e tradizione. Quella che ha nei suoi simboli Federico Tesio, Ribot e Nearco, Orsenigo e Donatello.

Nel nostro piccolo e con scarse risorse abbiamo prodotto un convegno a cui ha partecipato tra gli altri l’onorevole Chiara Gadda, responsabile per Italia Viva in commissione agricoltura, Vittorio Orlandi, presidente della Fise Lombardia, Eugenio Colombo, major broker in usa.

Grazie a Roberto Cociancih e alla stessa Chiara Gadda che hanno permesso la realizzazione di questa iniziativa

Centre Hippique Mahdia, l’appello di Gabriella incisa di Camerana: abbiamo urgente bisogno di aiuto! – Appel: nous avons besoin d’aide

français/italiano

Santorre di Santarosa

« Autant de petites gouttes d’eau font la mer… ensemble nous pourrons y arriver ! » c’est avec ces mots, chargés en même temps de chagrin et d’espoir, que Gabriella Incisa di Camerana fait appel à une collecte  de fond.

Gabriella Incisa di Camerana; Italienne d’origine, elle est la présidente de l’association Centre Hippique Mahdia, qui œuvre depuis presque trente ans, au soutien de l’enfance et qui se mobilise, en particulier,  pour la neurodiversité.

Dans cette petite ville, dans le Sahel tunisien, un team d’animaux autochtones, dont deux races menacées de disparition comme le Poney des Mogods et le Sloughi, le lévrier berbère, sont éduqués spécialement pour accueillir les plus petits et leurs familles, à fin de les accompagner dans un parcours d’acquisition de compétences nécessaires à une correcte intégration scolaire et sociale, grâce aux IAA, les Interventions Assistées avec l’Animal.

La nuit du 10 septembre, une inusuelle tornade a frappé cette localité au bord de mer.

Dans un tourbillon de vents extrêmement violents, les tentes et les toitures qui protégeaient les chevaux ont été emportés. Une nuit de tragédie pour tous, submergés par cette tempête sans précédent, qui a heureusement épargné les animaux du centre équestre de Mahdia mais qui ont causé des dégâts importants aux structures. Pour une association qui ne bénéficie pas de subventions étatiques, c’est presque impossible de pouvoir refaire les abris aux chevaux.

« Reconstruire est devenu urgent et nécessaire, car plus que la pluie je crains le soleil qui, dans cette région maghrébine enduit des coups de soleil chez les chevaux les plus clairs, ceux à peau rose. Les zones particulièrement vulnérables et sensibles sont généralement celles qui sont dépigmentées : le nez, les lèvres, le contour des yeux, les balzanes, les cicatrices, etc.  – précise Gabriella désespérée et accablée par ce désastre qui vient d’aggraver le retour à la normalité d’après l’émergence du Covid19 – Cette photosensibilisation aux rayons UV du soleil s’accompagne souvent d’une photodermatose, c’est-à-dire un ensemble de démangeaisons cutanées et de lésions plus ou moins importantes et plus ou moins profondes selon le type de photosensibilisation rencontrée. La rougeur, l’inflammation, et la chaleur de la zone apparaissent aussitôt. Très douloureux pour le cheval, qui s’il ne se laisse soudainement pas toucher, des croûtes se forment ensuite et peuvent être suivies de saignements. Des infections peuvent suivre. Pour les cas les plus graves, certaines lésions peuvent être irréversibles !

Les chevaux ne réagissent pas de la même façon, leur vulnérabilité varie selon l’âge, le système immunitaire, le temps d’exposition, la chaleur environnante, etc. ».

Ne pouvant pas ouvrir, en Tunisie, des collectes sur les réseaux sociaux ni de lancer un Crowdfunding, objet d’une loi adoptée récemment mais pas encore en vigueur, l’association Centre Hippique Mahdia lance aujourd’hui un appel à participer aux dons pour pouvoir ouvrer autant pour les mineurs en situation de difficulté, de santé et sociale, que pour le bien-être animal.

Il est donc possible de contribuer à cette levée de fonds de deux manières différentes:

1) Avec PAY PAL dont le bénéficiaire est le mail suivant

donate.bc@gmail.com

2) À la PTT, avec MONEYGRAM ou WESTERN UNION, en spécifiant les données suivantes.

Association Centre  Hippique Mahdia

Zone Touristique

5111 Hiboun – Mahdia (Tunisie)

C.I.F. 1502151 / P

Tél 00216 24 75 1 464

Il est indispensable d’envoyer le reçu du mandat au mail gabi_incisa@yahoo.com                  

Fançais/italiano

«Come tante piccole gocce d’acqua fanno il mare … insieme ce la faremo!» È con queste parole, cariche di dolore ma anche di speranza, che Gabriella Incisa di Camerana fa appello per un’importante raccolta fondi.

Di origine italiana, è la presidente dell’associazione Centre Hippique Mahdia, che opera da quasi trent’anni a favore dei bambini e, in particolare, al riconoscimento della neurodiversità.

A Mahdia, una piccola città nel Sahel tunisino, un team di animali autoctoni, tra cui due razze a rischio di estinzione come il Pony di Mogods e lo Sloughi, il levriero berbero, viene appositamente educato per accogliere i più piccoli e le loro famiglie e supportarli in un processo di acquisizione delle competenze necessarie per una corretta integrazione scolastica e sociale, grazie agli IAA, gli Interventi Assistiti con gli Animali.

Nella notte del 10 settembre, un tornado ha colpito questa cittadina sul mare.

In un turbine di venti estremamente forti, le tende e le tettoie che proteggevano i cavalli sono stati spazzati via, accartocciati come fogli di carta. Una notte di tragedia per tutti, travolti da questo temporale senza precedenti, che fortunatamente ha risparmiato gli animali del centro ippico di Mahdia ma che ha causato danni significativi alle strutture. Per un’associazione che non beneficia dei sussidi statali, è quasi impossibile poter ripristinare i ricoveri per i cavalli.

« La ricostruzione è diventata urgente e necessaria, perché più della pioggia temo il sole che, in questa regione del Maghreb, provoca dei colpi di sole ai cavalli più chiari, quelli dalla pelle rosa. Le zone particolarmente vulnerabili e sensibili sono generalmente quelle depigmentate: naso, labbra, contorno occhi, balzane, cicatrici, ecc. – precisa Gabriella disperata e sopraffatta da questo disastro che ha appena aggravato il ritorno alla normalità a seguito del Covid19 – Questa fotosensibilizzazione del sole ai raggi UV è spesso accompagnata da fotodermatosi, cioè prurito cutaneo e lesioni più o meno importanti e più o meno profonde. Il rossore, l’infiammazione e il calore dell’area appaiono immediatamente. Molto doloroso per il cavallo, che improvvisamente non si lascia più toccare la parte lesa. Si formano quindi delle croste che possono essere seguite da sanguinamento. Possono seguire infezioni. Nei casi più gravi, alcune lesioni possono diventare irreversibili! I cavalli non reagiscono allo stesso modo, la loro vulnerabilità varia a seconda dell’età, del sistema immunitario, del tempo di esposizione, del calore circostante, ecc. ».

Non potendo aprire, in Tunisia, collette on line sui social o lanciare un Crowdfunding, oggetto di una legge adottata recentemente ma non ancora in vigore, l’associazione Centre Hippique Mahdia lancia oggi quest’appello accorato per poter ritornare, a breve, a lavorare sia per i minori in situazioni sanitarie e sociali difficili quanto per il benessere degli animali.

È quindi possibile contribuire a questa raccolta fondi in due modi diversi:

1) Con PAY PAL il cui beneficiario è la seguente email

donate.bc@gmail.com

2) Oppure, con MONEYGRAM o WESTERN UNION, specificando i seguenti dati.

Association Centre Hippique Mahdia

Zone Touristique

5111 Hiboun – Mahdia (Tunisia)

C.I.F. 1502151 / P

Telefono 00216 24 75 1464

È indispensabile inviare la ricevuta dell’effettuato versamento mandato via mail: gabi_incisa@yahoo.com

Un fondo di un miliardo per UN NUOVO INIZIO dell’ippica italiana.

Claudio Gobbi

Un ippica dimenticata, in cui personaggi di nessun peso hanno proposto e ottenuto che il Gp Milano fosse ridotto a un fantasma rispetto alla grande corsa che ha laureato campioni come Nearco, oggi necessità di un grande rilancio con un importante investimento per il futuro.

Questo è possibile con i soldi provenienti dall’Europa per il rilancio del Paese perchè l’ippica è una parte del paese con migliaia di addetti, tra allevatori, proprietari, addetti. Ma bisogna muoversi in modo sollecito.

È necessario l’intervento della ministra Bellanova e della parte sana e consapevole del settore.

Ce la possibilità di un NUOVO INIZIO che ci porti ai livelli del nostro passato glorioso.Ecco alcuni punti su cui intervenire.

IPPICA: UN NUOVO INIZIO

Un miliardo per il rilancio del settore

-Defiscalizzazione sul modello americano |

-Contributi all’allevamento |

-Pagamento premi sul modello francese con rimessa diretta sui c/c dei premi a 10 gg dall’avvenuto evento

-Ristrutturazione del calendario sul modello ante 1970

-Riutilizzo del cavallo da corsa in ambito equestre | sul modello dell’Associazione francese Au de-la de Piste

-Passaggio sotto il CONI dello spettacolo ippico

-Il modello inglese |un modello da seguire?

-Il trotto elemento vivo dell’ippica italiana | 

-Pubblicità e promozione | 

-Le corse in Tv: quale modello, a chi affidare la concessione: è lo Stato che deve pagare il concessionario o è il concessionario che deve pagare lo Stato sul modello del calcio?

Akhal Tekè🐎una razza antica celebrata anche da Alessandro Magno (video)

Fu celebrata da Alessandro Magno. Le fattrici di purosangue arabo venivano presentate agli stalloni di questa razza per la bellezza di questi cavallo. O sovietici ne tentarono l’estinzione per favorire la meccanizzazione agricola. Ma fallirono. È probabilmente il Progenitore del Puro sangue inglese come dimostrano i libri genealogici del PSI. Un video in italiano ci racconta, storia, origini e impiego.

Keeneland: ecco un report sugli yearling pagati più di 1 milione di dollari.

Una classifica interessante per capire cosa significano nel mondo queste aste.

Il record appartiene a Seattle Dancer, un figlio di Nijnsky pagato 13.1 milioni di dollari pagati da Sangster e soci che batterono Sheikh Mohammed.

Ma lo sa la ministra Bellanova che l’ippidromo di Merano sta per chiuderea causa del Mipaaf?

La denuncia di messa in mora di Giovanni Martone. (Video-intervista Martone)

https://www.rainews.it/tgr/bolzano/video/2020/06/blz-crisi-ippodromo-merano-chiusura-f2730137-c00f-4986-8be1-ec67f587f711.html?wt_mc=2.www.mail.tgrtaabz_ContentItem-f2730137-c00f-4986-8be1-ec67f587f711.&wt

Grande intervento per la riapertura degli ippodromi, la ministra è chiamata a intervenire per il più internazionale degli ippodromi italiani, Merano. Perdite per il mancato rinnovo della convenzione nn ne consentirebbero il proseguimento dell’attività di questo che è l’unico ippodromo che ha resistito alla grave crisi del settore indotta da un ministero come il Mipaaf costituito da personale incompetente.

La Lombardia estende la caccia alla volpe per tutto l’anno. E quella a cavallo? Il parere del Master della Milanese Cacce a Cavallo (video).

https://www.monzatoday.it/attualita/caccia-volpe-lombardia.html

 

Il parere di Gibi Litta Modignani, Master della Milanese Cacce

Caro Claudio (Claudio Gobbi, titolare del blog Chavalier.net), ho letto il link di cui sopra riguardo l’estensione a tutto l’anno della caccia alla volpe ( col fucile ).

Questa nuova situazione non cambia nulla per noi della “caccia a cavallo” poichè come ben sai dal dopoguerra la SMCC non pratica più attività venatoria ma solo “sportiva” tramite una traccia di odore che gli”hounds” inseguono su un percorso prestabilito, lavorando in libertà ma non disturbando affatto la fauna selvatica nè tantomeno uccidendola.

Per quanto sopra detto i nostri permessi sono quindi concernenti l’attraversamento di spazi riservati quali riserve di caccia, oasi di ripopolamento, parchi, proprietà private ecc. Di conseguenza non siamo tenuti a rispettare nessun calendario venatorio se non in qualche zona o periodo per quel che riguarda l’addestramento della nostra muta.

La volpe selvatica si sta espandendo molto nelle nostre zone ed è per questo che oggi è tornata ad essere considerata un “nocivo” e quindi cacciata ed uccisa.
Non so se questa novità potrà essere la soluzione del problema là dove sia diventato importante ma sta di fatto che la volpe ormai si è inurbata in molti territori non essendo più stata disturbata; nel mio giardino a Varese ne ho contate anche sette!!
Spero di essere stato esaustivo…

A presto Gibi

Era il 1976. Un giovane cavaliere racconta 15 giorni in sella nel centro di allenamento di Chantilly. (video la pista Americaine)

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Nell’immagine qui sopra la genealogia della cavalla Reine Didon citata nel racconto. Nell’immagine di apertura, cavalli in allenamento sulla pista l’Amercicane.

https://youtu.be/Jx2FyGm4Bxo

Chantilly nn è solo famosa per la famosa crema pasticciera. Ma per essere il più importante centro di allenamento di cavalli da corsa d’Europa comunitaria. Il racconto di 15 giorni in sella a una purosangue di un giovane cavaliere nell’estate del 1976

di Claudio Gobbi

Lei aveva gambe lunghissime e un fisico da impazzire, bruno elegante come può esserlo solo una parigina che frequenta i luoghi del jet set internazionale. Impossibile non innamorarsi di un essere come quello, a Parigi, uno dei luoghi dell’amore per l’eccellenza. Dove si incontrano gli innamorati, dove nascono passioni struggenti come quella che vi racconto.

Ero partito da Como accompagnato al treno dai miei genitori e da amici di famiglia che erano in vacanza sul lago, in un piccolo paese, Lezzeno, in quel luglio del 1979. Avevo voluto fortemente quel viaggio. Era il mio riscatto, dopo un lungo periodo di profonda inquietudine e sofferenza. Di amori perduti e lavori mancati. Venivo dal torpore di lunghi anni di psicofarmaci adagiato sul lettino di uno psicoanalista. Quel viaggio diede origine a una nuova vita. Come altre volte è successo nel percorso che mi ha portato oggi a scrivere di esso.

Ricominciavo da dove avevo iniziato otto anni prima a Merano, quando il mio compagno a quattro zampe, si chiamava Morozzo. Ora mi chiedevo chi mi sarebbe stato accanto in quei 15 giorni di vacanza a Chantilly, la meta finale del mio viaggio di quell’estate del 1979?

Feci scalo a Milano, poi mi imbarcai sul treno che in una notte mi avrebbe portato a nella ville lumier. Da lì alla mia meta finale, sempre in treno: Chantilly che i più identificano con una golosa crema pasticcera ma che è l’ultimo dei suoi pregi. Passando per la gare de Lion, una stazione simile a quella centrale di Milano, ma molto più piccola, così almeno mi era apparsa allora.

Chantilly dista una mezz’ora da Parigi. Sta in campagna. È solo un paesino circondato da boschi e da piste di allenamento per cavalli da corsa, per i purosangue, la sua missione per eccellenza, altro che pasticcini e bignè! Il più grande di Francia e tra i primi al mondo. Attorno decine di scuderie che risalgono all’Ottocento. Qui hanno dimorato grandi cavalli del passato che vi erano acquartierati in edifici antichi. Gloriosi purosangue tra cui Gladiateur il primo francese ad andare a vincere e battere gli inglesi a Epsom, nel loro Derby, immortalato su tela da un altro francese, guarda caso, Theodore Gericault, che per primo nella storia, raffigurò nel suo soggiorno lodinese, quella che è la corsa delle corse per antonomasia. Personaggio singolare Theodore, un cavaliere con tutte le qualità che si richiedono per esserlo, tra cui quella di essere un vero tombeur de femme. Che il nostro non mancò di onorare se, per sfuggire alla vendetta dello zio a cui aveva concupito la giovanissima moglie, Alessandrine da cui ebbe un figlio, fuggi nella perfida Albione.

Chantilly. Un immensa è sconfinata distesa di boschi silenziosi in cui come in racconti fiabeschi sono i sentieri a condurre alle dimore di magnifici cavalli che ogni mattina li animano col battere di zoccoli e nitriti.

Sullo sfondo un marmoreo castello antico, quello del duca di Condè, dimora di un grande di Francia che mi apparve come un mausoleo e i cui giardini, seppi molto tempo dopo, furono realizzati da un genio, Andrè le Notre, il giardiniere del Re Sole, mica uno qualunque. Poi ancora quell’ippodromo dove si corre il Derby di Francia, che alle alte mura del castello di Ludvig in Baviera di cui riproduceva le fattezze, ha sostituito il legno così da produrre un atmosfera da fiaba. Ecco ero entrato in quello che mi apparve come il paradiso, quello dei cavalli.

Portavo con me una sella straordinaria di Pariani che con Hermés è il più storico e prestigioso dei sellai europei e forse del Mondo. Fatta di cuoio inglese, fatta a mano e su misura per me solo, e solo per cavalli da corsa. Gli stivali anche quelli a mano, di morbida pelle di capretto. Il casco era di quelli che portano i fantini veri. Sono stati 15 giorni indimenticabili.

Mi portò in quel paradiso un italo inglese, tale Murray che lavorava per una scuderia importante in cui faceva il vice del trainer, quella di Charles Milbank in cui fui ospitato, e di cui ho il vago ricordo di un signore alto, biondo che raramente si faceva vedere in scuderia ma che sovraintendeva i lavori dei cavalli la mattina per valutarne la forma in vista delle corse. Una prima lama tra I trainer, come si dice in gergo ippico. Mi alloggiarono in un caravan proprio dietro quell’antico cortile su cui guardavano i box e dove al centro stava un tondino in sabbia per la doma dei puledri. Quell’anno in scuderia c’erano il primo e il quarto del derby di Francia dell’anno successivo, Policemen, (in sella Lanfranco Dettori), e Dom Aldò.

La mattina seguente sveglia alle 6 per la prima delle tre uscite dei purosangue allenati da Milbank a cui ero accodato. La mia monta, si dice proprio così in gergo ippico, era già sellata da quei ragazzi di scuderia con cui feci amicizia, e con cui mi presi anche una sbornia colossale.

 

Bellissima era bellissima, capricciosa inutile negarlo, come quelle femmine che sanno di piacere e ne approfittano. Ecco lei era così. Reine Didon, femmina baia figlia di Margouillat, un buon performer con all’attivo alcuni gran premi. Una vera purosangue da corsa che calcava le scene, a dir il vero senza troppo successo, di uno dei maggiori teatri dell’ippica internazionale, Longchamp, il tempio, la scala del galoppo o Turf come dicono gli inglesi per definire questo sport. Io ci sarei salito in sella tutte le mattine e per i primi 7 di quei 15 giorni, anche con un po’ di apprensione.

L’amore si sa è litigarello. E non ci misi molto a capirlo. Almeno per la prima settimana, non è che andassimo proprio d’accordo, tutt’altro. Voltafaccia è un temine molto usato nell’ippica. Sta a significare un tipico atteggiamento del cavallo, quello di girarsi di scatto con la spiacevole conseguenza di essere sbalzato di sella. Ebbene Reine Didon era una specialista in materia. Attraversando il bosco al passo, prima di arrivare in pista di allenamento, il suo divertimento era proprio quello. Non riuscii a buttarmi giù e dopo un paio di mattine le presi le misure e abbastanza tranquillo arrivavo in pista con lo squadrone dei cavalli di Milbanc.

E qui veniva il bello. L’Americane, è una pista di allenamento in sabbia lunghissima e larghissima. Appare improvvisamente dal bosco e i cavalli vi si lanciano subito al galoppo. Immediato era il desiderio della cavalla di dare sfogo alle sue pulsioni, per raggiungere l’estremo limite della distesa sabbiosa, in una forsennata esplosione di vivacità che cercavo di rallentare, mentre Reine mi mostrava i segni di quell’impazienza che non comprendevo, ma si sa, a volte, le amanti sono senza freni.

Procedeva in un galoppo a balzi che non è proprio il massimo per chi ci sta sopra. Poi al limite della pista, rallentava, eseguiva un semicerchio sgroppando e di nuovo via per tornare al punto di partenza con lei finalmente in un galoppo disteso. Passò così tutta la prima settimana. Poi smisi di esserle contro. Desideravo fondermi in un tutt’uno con lei. Non mi opposi al suo desiderio di che si esprimeva in quel galoppo a balzi, e liberai le sue, e le mie, passioni in un volo sulle ali della libertà con il classico vento che ti sferza la faccia.

Arrivò sabato, il giorno dei lavori veloci che preparano alle corse. Andammo a galoppare su un’altra pista in sabbia. Io staffato corto come un vero e proprio jockey, non potei fare a meno di voltarmi e vedere quelle poderose leve posteriori di Reine Didon che spingevano, spingevano con enorme potenza. Sopra di noi i rami degli alberi, formavano una cupola verde.

Il gruppo dei cavalli di Milbanc fermò il galoppo in una radura vicina alla pista e cominciammo a girare in tondo al passo. In un rito sempre uguale che risaliva alla fine dell’ottocento, quando uomini e cavalli cominciarono a occupare quel bosco e quelle piste, un uomo di scuderia smontò da un puledro e l’allenatore vi face salire il fantino per un lavoro veloce in preparazione alla corsa. Il jockey si chiamava Jojo Deleuze, una delle fruste super di Francia con all’attivo tanti gran premi. In un balzo fu in sella e veloce sparì alla nostra vista. Noi del gruppo tornammo galoppando verso il bosco e poi al passo in scuderia.

Alla fine dei secondi sette giorni, il ritorno a casa, a Milano. Da Chantilly ho portato un ricordo, una cravache, una frusta da corsa che mi feci fare da Petitpas, a Maison, abbreviativo di Maison Lafitte, come la gente di cavalli di Francia chiama questo altro centro di allenamento per cavalli da corsa dove anche pranzai in un improbabile ristorante che di italiano aveva solo il nome. Un sellaio che nulla ha tutt’ora da invidiare a Hermès. Non ricordo assolutamente nulla di quel viaggio di ritorno. Ma, forse, non sono mai tornato, sono ancora in quella scuderia, in sella a Reine Didon: galoppo con lei all’infinito sull’Americaine.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Hemingway tra San Siro, Milano, Lonchamp e Parigi. La storia di un fantino e di due grandi cavalli.

I protagonisti di questo racconto

Da sinistra. Ksar, il grande cavallo poi vincitore di Arc e grande stallone – il Cafè de Paris negli anni venti e tutt’ora esistente in cui si racconta parte della storia e luogo di ritrovo di fantini –  l’insegna che campeggia all’ingresso della città di Maison Lafitte – Ernest Hemingway al lavoro – Kircubbin, il vincotore del Gran Prix de Saint Cloud

Da I 49 RACCONTI di Hernest Hemingway uno spaccato sull’ippica milanese e parigina degli anni Venti di un grande scrittore e grande appassionato di corse e purosangue. In cui si narra anche di un altrettanto grande fantino italiano, Federico Regoli e dei Turner, del Gran Premio del Commercio del ’22 vinto da Lantorna, di proprietà austriaca e del Gran Prix de St Cloud dove il jokey di Ksar imbragò e fece vincere Kircubbin.

I personaggi uomini e cavalli di questo racconto di un giovane Hemingway, che amava Milano per esserci stato da corrispondente di guerra, da cui trasse il libro Addio Alle armi, sono in parte realmente esistiti. Vero è l’aneddoto relativo al Gran Premio del Commercio, e soprattutto quello sul Gran Prix de Saint Cloud dove il grande Ksar fu battuto in foto dal più modesto Kircubbin. CG

“Il mio vecchio” di Hernest Hemingway da “I 49 Racconti”

Adesso, ripensandoci, credo proprio che il mio vecchio avesse la tendenza a ingrassare, a diventare, preciso preciso, uno di quei tombolotti che si vedono in giro, ma di sicuro non lo diventò mai, tranne un po’ verso la fine, forse, e allora non era colpa sua, allora faceva solo corse a ostacoli e poteva permettersi di portare tutto il peso che voleva. Ricordo quando s’infilava un camiciotto di gomma sopra un paio di maglie, e sopra il camiciotto ancora un altro maglione, e mi faceva correre con lui la mattina sotto il sole cocente. Magari, la mattina di buon’ora, aveva già fatto qualche giro di prova con uno dei brocchi di Razzo, subito dopo essere arrivato da Torino alle quattro del mattino e aver preso un taxi per correre alle scuderie, e poi, con la rugiada che copriva ogni cosa e il sole che cominciava a spuntare solo allora, io lo aiutavo a sfilarsi gli stivali e lui si metteva un paio di scarpe da ginnastica e tutte queste maglie, e ci avviavamo insieme. «Su, ragazzo» diceva, saltellando sulla punta dei piedi davanti allo spogliatoio dei fantini «rimoviamoci.» Allora facevamo forse un giro di campo, con lui che tirava, correndo con eleganza, e poi uscivamo dal cancello e prendevamo una di quelle strade con gli alberi da tutt’e due le parti che partono da San Siro. Quando uscivamo dall’ippodromo passavo in testa io, che ero capace di correre piuttosto forte, e voltandomi indietro a guardare lo vedevo saltellare con disinvoltura alle mie spalle, e dopo un po’ mi voltavo un’altra volta e lui aveva cominciato a sudare. Sudando copiosamente continuava a darci dentro, con gli occhi incollati alla mia schiena, ma quando si accorgeva che lo guardavo sorrideva e diceva: «Sudo abbastanza?». Quando il mio vecchio sorrideva, nessun altro poteva trattenere un sorriso. Continuavamo a correre verso le montagne e poi il mio vecchio urlava: «Ehi, Joe!» e io mi voltavo indietro e lui era là seduto sotto un albero con un asciugamano intorno al collo, quello che prima aveva intorno alla vita. Tornavo indietro e mi sedevo accanto a lui e lui toglieva di tasca una corda e cominciava a saltare la corda, al sole, col sudore che gli grondava dal viso, e saltava nella polvere bianca con la corda che faceva cloppete, cloppete, clop, clop, clop, e il sole che diventava sempre più caldo, e lui che ci dava dentro sempre più, avanti e indietro per un pezzo di strada. Ehi, anche vedere il mio vecchio che saltava la corda era uno spettacolo. Sapeva farla roteare velocissima o volteggiare lenta ed elegante. Ehi, avreste dovuto vedere come ci guardavano gli italiani, certe volte, quando passavano di lì per entrare in città, marciando di fianco ai giovenchi, grossi e bianchi, che tiravano il carro. Avevano proprio l’aria di pensare che il mio vecchio fosse matto. Quanto a lui, faceva girare la corda così in fretta che quelli s’incantavano a guardarlo, poi scuotevano i giovenchi con uno schiocco della lingua e una stoccata del pungolo e si rimettevano in cammino. Quando stavo là seduto a guardarlo, mentre lui ci dava dentro sotto il sole cocente, sentivo proprio un grande affetto per lui. Era uno spasso, e lui ce la metteva proprio tutta, e finiva con un vero mulinello che gli faceva colare il sudore dal viso come se fosse acqua, e poi buttava la corda ai piedi dell’albero e veniva a sedersi lì con me e si appoggiava all’albero con l’asciugamano e un maglione intorno al collo. «Certo che è dura tenerla giù, Joe» diceva, appoggiando le spalle al tronco e chiudendo gli occhi e tirando respiri lunghi e profondi «non è come quando sei un ragazzo.» Poi si alzava e, prima che cominciasse a raffreddarsi, tornavamo di corsa alle scuderie. Ecco quello che si doveva fare per non far salire il peso. Lui era sempre preoccupato. Alla maggior parte dei fantini basta montare per togliersi di dosso il grasso in più. Un fantino perde circa un chilo ogni volta che monta, ma il mio vecchio si era come prosciugato e non poteva tener bassi i suoi chili senza tutte quelle corse. Ricordo una volta a San Siro quando Regoli (Federico Regoli), un piccolo italiano che montava per Buzoni, uscì attraverso il paddock per andare a prendere qualcosa di fresco al bar; si batteva gli stivali col frustino, dopo essersi appena pesato, e anche il mio vecchio era appena stato al peso, e usci con la sella sottobraccio, rosso in faccia e stanco e troppo grosso per il costume di seta che indossava, e si fermò a guardare il giovane Regoli ritto davanti al banco di quel bar all’aperto, con la sua aria fresca e infantile, e io dissi: «Che c’è, papa?», perché credevo che Regoli, magari, lo avesse spinto o disturbato in qualche modo, e lui si limitò a guardare Regoli e a dire: «Oh, all’inferno» e prosegui verso gli spogliatoi. Be’, sarebbe andato tutto bene, forse, se fossimo rimasti a Milano, correndo a Milano e a Torino, perché se c’erano degli ippodromi facili erano questi due. «Una passeggiata, Joe» disse il mio vecchio quando mise piede a terra nel recinto del vincitore dopo quello che secondo gli italiani doveva essere uno steeplechase da brivido. Un giorno glielo chiesi. «Questa pista ti porta da sola. È l’andatura a rendere pericoloso il salto degli ostacoli, Joe. Qui si va come lumache, e non ci sono nemmeno degli ostacoli veramente brutti. Ma è sempre l’andatura. non gli ostacoli – a metterti nei guai.» San Siro era l’ippodromo più bello che io avessi mai visto, ma il vecchio diceva che era una vita da cani. Andare avanti e indietro tra Mirafiori e San Siro e montare quasi tutti i giorni con un viaggio in treno ogni due notti. Anch’io ero pazzo per i cavalli. C’è qualcosa, quando escono e si avviano lungo la pista al palo di partenza. Nervosi e scalpitanti come sono, col fantino che ora li trattiene e ora forse molla un po’ le redini e li lascia scattare in avanti. Poi, una volta arrivati ai nastri, mancava poco che mi sentissi male. Specie a San Siro, con quel grande campo verde e i monti in lontananza e il grasso mossiere italiano con la sua grossa frusta e i fantini che cincischiano e poi i nastri che si alzano di scatto e quella campana che suona e tutti che partono in gruppo e poi cominciano a sgranarsi in una lunga fila. Lo sapete come parte un grappolo di brocchi. Se siete su in tribuna col binocolo, tutto quello che si vede è quando si gettano avanti, e poi suona quella campana e sembra che continui a suonare per mille anni, e poi si vedono sbucare dalla curva, a rotta di collo. Ma il mio vecchio disse un giorno, negli spogliatoi, mentre si cambiava: «Questi non sono cavalli, Joe. A Parigi li manderebbero al macello per tenere gli zoccoli e le pelli». Era il giorno in cui aveva vinto il premio del Commercio (poi Gran Premio di Milano, ndr) su Lantoma, facendola scattare negli ultimi cento metri come un tappo da una bottiglia. Fu subito dopo quel premio che partimmo e lasciammo l’Italia. Il mio vecchio, Holbrook e un italiano grasso col cappello di paglia che continuava ad asciugarsi la faccia con un fazzoletto ebbero una discussione a un tavolo in Galleria. Parlavano tutti in francese e gli altri due ce l’avevano col mio vecchio per qualcosa. Alla fine lui non parlò più ma rimase là seduto a guardare Holbrook, e i due insistevano, parlando prima l’uno e poi l’altro, con l’italiano grasso che interrompeva sempre Holbrook. «Vammi a comprare lo “Sportsman”, eh, Joe?» disse il mio vecchio, e mi allungò due soldi senza distogliere lo sguardo da Holbrook. Così uscii dalla Galleria per andare davanti alla Scala a comprare il giornale, e tornai indietro e mi tenni un po’ in disparte perché non volevo interferire, e il mio vecchio era seduto con le spalle appoggiate allo schienale guardando il suo caffè e giocherellando col cucchiaino, e Holbrook e l’italiano grasso erano in piedi, e l’italiano grasso si asciugava il viso e scuoteva la testa. E io mi avvicinai e il mio vecchio si comportò proprio come se quei due non fossero là in piedi e disse: «Vuoi un gelato, Joe?». Holbrook abbassò lo sguardo e disse, lento e preciso: «Figlio di puttana» e se ne andò con l’italiano grasso, passando fra i tavoli. Il mio vecchio rimase là seduto e mi rivolse una specie di sorriso, ma il suo volto era bianco e sembrava che lui stesse malissimo, e io avevo una gran fifa e mi sentivo un vuoto al-la bocca dello stomaco perché sapevo che era successo qualcosa e non capivo come uno potesse dare al mio vecchio del figlio di puttana e farla franca. Il mio vecchio aprì lo “Sportsman” e per qualche tempo studiò gli handicap e poi disse: «Bisogna sopportare un mucchio di cose in questo mondo, Joe».

E tre giorni dopo, col treno di Torino per Parigi, lasciavamo Milano per sempre, dopo aver venduto all’asta, davanti alle scuderie di Turner, tutto quello che non eravamo riusciti a ficcare in un baule e in una valigia. Arrivammo a Parigi la mattina di buon’ora, in una stazione lunga e sporca che – mi disse il vecchio – era la Gare de Lyon. Dopo Milano, Parigi era una città spaventosamente grande. A Milano si ha sempre l’impressione che tutti vadano in qualche posto, e che tutti i tram abbiano una destinazione e che non ci sia nessuna confusione; Parigi, invece, è tutta fatta su come una palla e nessuno la srotola mai. Finì per piacermi, comunque, almeno in parte, perché, accidenti, ci sono i migliori ippodromi del mondo. Si direbbe che sia questa, la molla di tutto, e tutto quello che si può pensare è che ogni giorno ci saranno degli autobus per andare all’ippodromo dove si corre, qualunque sia, passando sopra a tutto pur di arrivare là. Non sono mai riuscito a conoscere bene Parigi, perché ci venivo una o due volte la settimana col vecchio da Maisons e lui si sedeva sempre al Café de la Paix, dalla parte dell’Opera, col resto della ganga di Maisons, e credo che sia una delle parti più trafficate della città. Ma, dico, è strano che una città come Parigi non abbia una Galleria, no? Dunque, noi andammo a stare a Maisons-Laffitte, dove stanno quasi tutti tranne la ganga di Chantilly, da una certa signora Meyers che dirige una pensione. Maisons, per abitarci, è forse il più bel posto che io abbia mai visto in tutta la mia vita. Il paese non è granché, ma c’è un lago e una bellissima foresta dove andavamo a zonzo tutto il giorno, io e un amico, e il mio vecchio mi costruì una fionda con cui prendemmo un mucchio di cose, ma la migliore era una gazza. Con questa fionda, un giorno, il giovane Dick Atkinson colpi un coniglio, e noi lo mettemmo sotto un albero, e gli stavamo seduti tutt’intorno, a fumare le sigarette di Dick, quando a un tratto il coniglio saltò su e se la batté tra i cespugli, e noi ci buttammo all’inseguimento ma non riuscimmo a trovarlo. Dio, come ci siamo divertiti a Maisons. La signora Meyers mi serviva il pranzo al mattino, e poi io stavo fuori tutto il giorno. Imparai presto a parlare francese. È una lingua facile. Appena arrivati a Maisons, il mio vecchio scrisse a Milano per avere la licenza, e rimase piuttosto preoccupato finché non arrivò. Passava molte ore con la ganga al Café de Paris di Maisons, perché lì c’era un sacco di gente che aveva conosciuto quando correva a Parigi, prima della guerra, e c’è sempre molto tempo libero perché il lavoro nella scuderia, per i fantini, cioè, è già finito alle nove del mattino. Loro portano fuori il primo gruppo di ronzini, per fargli fare una galoppata, alle cinque e mezzo del mattino, e il secondo gruppo lo portano a spasso alle otto. Ciò significa che bisogna alzarsi presto e anche andare a letto presto. Se poi il fantino monta anche per qualcuno, non può andare in giro a bere, perché, se è un ragazzo, l’allenatore gli tiene gli occhi addosso e se non lo è gli occhi addosso se li tiene da solo. Così, se non lavora, il fantino passa quasi tutto il tempo con la ganga al Café de Paris, e sono tutti capaci di star seduti due o tre ore davanti a un bicchiere, per esempio di vermut col seltz, a parlare e a raccontare storielle e a giocare a bigliardo, ed è un po’ come un circolo o, a Milano, la Galleria. Solo che non è proprio come la Galleria, perché là c’è sempre un gran viavai e i tavoli sono affollatissimi. Dunque, il mio vecchio ebbe la sua licenza. Gliela spedirono senza una parola e lui disputò un paio di corse. Amiens, le città dell’interno e così via, ma sembrava che non riuscisse ad avere un ingaggio. Era simpatico a tutti, e ogni volta che al mattino entravo nel caffè trovavo qualcuno che beveva con lui, perché il mio vecchio non era uno spilorcio come la maggior parte di questi fantini che hanno guadagnato il primo dollaro correndo nel novecentoquattro alla Fiera mondiale di St Louis. Così diceva il mio vecchio per sfottere George Burns (fantino americano, ndr). Ma sembrava che tutti si guardassero bene dal trovargli un cavallo. Ogni giorno andavamo con la macchina da Maisons dovunque si corresse, e quella era la cosa più divertente di tutte. Io fui contento quando, alla fine dell’estate, i cavalli tornarono da Deauville. Anche se questo significava non andare più a spasso per i boschi, perché allora andavamo con la macchina a Enghien o a Tremblay o a Saint-Cloud a vederli dalla tribuna degli allenatori e dei fantini. Ne imparai, di cose, sulle corse, andando in giro con quella comitiva, e il bello era che ci si andava tutti i giorni. Ricordo, una volta, a Saint-Cloud. Era una grande corsa (Gran Prix de Saint Cloud, ndr) da duecentomila franchi con sette concorrenti e Kzar era il grande favorito. Io andai nel paddock a vedere i cavalli col mio vecchio, e non ne avete mai visti di cavalli come quelli. Questo Kzar è un cavallone giallo che sembra fatto apposta per correre. Non ho mai visto un cavallo simile. Lo portavano in giro per il paddock a testa bassa, e quando passò vicino a me mi sentii un vuoto allo stomaco, tanto era bello. Non era mai esistito un cavallo così meraviglioso, snello e fatto per correre. E girava per il paddock mettendo gli zoccoli dove doveva metterli, e muovendosi con calma, con precisione e con disinvoltura, come se sapesse esattamente quello che doveva fare, e senza impuntarsi e senza impennarsi e senza strabuzzare gli occhi come si vede fare a questi brocchi messi in vendita con la bomba in corpo. La folla era cosi fitta che dopo un po’ non riuscivo più a vederne altro che le zampe che passavano e un po’ di giallo, e il mio vecchio si mise a fendere la calca e io lo seguii negli spogliatoi dei fantini, tra gli alberi sul retro, e c’era una gran folla anche da quelle parti, ma l’uomo sulla porta, con la bombetta, salutò il mio vecchio con un cenno del capo e noi entrammo, e tutti stavano seduti qua e là e si vestivano e s’infilavano camicie dalla testa e si mettevano stivali e dappertutto c’era un odore caldo di sudore e linimento, e fuori c’era la folla che guardava dentro. Il mio vecchio andò a sedersi vicino a George Gardner che si stava infilando i calzoni e disse: «Che mi racconti, George?», nel suo tono di voce più normale, perché è inutile fare la commedia, perché George può fare due cose: o glielo dice o non glielo dice. «Non vince» dice George, pianissimo, sporgendosi verso di lui e abbottonandosi le braghe sotto il ginocchio. «Chi vince?» fa il mio vecchio, avvicinandosi per non farsi sentire da nessuno. «Kircubbin» dice George «e in questo caso fa’ un paio di puntate anche per me.» Il mio vecchio dice qualcosa a George con la sua voce normale e George dice: «Non puntare mai sui cavalli che ti dico io» come scherzando, e noi ce la battiamo e passiamo tra la gente che guardava dentro, fino al totalizzatore da cento franchi. Ma io sapevo che c’era sotto qualcosa, perché George è il fantino di Kzar. Strada facendo il mio vecchio prende uno di quei fogli gialli con le quote di partenza, e Kzar paga solo cinque a dieci, poi, tre a uno, viene Cefisidote, e al quinto posto c’è questo Kircubbin, otto a uno. Il mio vecchio punta su Kircubbin, cinquemila vincente e mille piazzato, e poi girammo dietro le tribune per salire le scale e scegliere un posto da cui seguire la corsa. Eravamo pigiati come sardine, e per primo uscì un uomo con una giacca lunga, un cilindro grigio e in mano una frusta ripiegata, e poi i cavalli, l’uno dopo l’altro, con i fantini in sella e uno stalliere che li teneva per le briglie da ogni lato e procedeva di fianco agli animali, seguirono il vecchio signore. Al primo posto era quel cavallone giallo, Kzar. Non sembrava così grosso, la prima volta che lo vedevi, finché non notavi la lunghezza delle zampe e tutto il modo in cui è fatto e come si muove. Accidenti, non ho mai visto un cavallo simile. Lo montava George Gardner, e venivano avanti lentamente, cavallo e cavaliere, dietro il vecchio signore col cilindro grigio che camminava come se fosse il direttore di un circo. Dietro Kzar, che avanzava lustro e giallo sotto il sole, veniva un bel morello dalla testa ben proporzionata montato da Tommy Archibald; e dopo il morello c’era una fila di altri cinque cavalli che passavano tutti lentamente, in processione, davanti alle tribune e al pesage. Il mio vecchio disse che il moro era Kircubbin e io lo guardai bene, ed era un bel cavallo, sissignori, ma con Kzar non aveva niente da spartire. Tutti applaudirono Kzar, mentre passava, ed era proprio un bellissimo cavallo. Il corteo girò dall’altra parte, passando davanti al prato, e si fermò in fondo alla pista, dove il direttore del circo ordinò agli stallieri di lasciar liberi i cavalli, l’uno dopo l’altro, in modo che sfilassero al galoppo davanti alle tribune mentre andavano ai nastri di partenza e tutti potessero vederli bene. Si erano appena allineati quando suonò il gong, e allora fu possibile vederli, lontanissimi, di là dal prato, partire tutti in gruppo e gettarsi verso la prima curva come tanti cavallini per bambini. Io li stavo guardando col binocolo e Kzar era piuttosto indietro, con uno dei bai che facevano l’andatura. Finirono la curva, entrarono in rettilineo e passarono davanti alle tribune, e Kzar era molto indietro quando ci passarono davanti, mentre in testa c’era questo Kircubbin, che filava senza intoppi. Dio, è terribile quando ti passano davanti e poi ti tocca di vederli allontanarsi e diventare sempre più piccini, e poi tutti raggruppati nelle curve, per poi sgranarsi nuovamente in rettilineo, e ti vien voglia d’inveire e bestemmiare sempre più. Finalmente fecero T’ultima curva ed entrarono in dirittura d’arrivo con in testa questo Kircubbin, staccato di un bel po’. Tutti avevano una faccia strana e dicevano «Kzar» come se avessero mal di pancia, mentre i cavalli divoravano il rettilineo, e poi qualcosa uscì dal gruppo ed entrò nel mio campo visivo, qualcosa di simile a una striscia gialla con la testa di cavallo, e tutti cominciarono a gridare «Kzar» come se fossero diventati matti. Kzar era il cavallo più veloce che io avessi mai visto in vita mia, e incalzava Kircubbin che, per essere un morello, non poteva andare più svelto di così, col fantino che lo frustava a tutto spiano, e per un attimo furono testa a testa anche se Kzar, con quei balzi giganteschi e quella testa alta, sembrava due volte più veloce di lui: ma fu mentre erano così testa a testa, che passarono il traguardo, e quando apparvero i cartelli con i numeri il primo era un due e ciò significava che Kircubbin aveva vinto. Io mi sentivo, dentro, tutto strano e tremante, e poi ci trovammo pigiati tra là folla che scendeva le scale per andarsi a mettere davanti al tabellone dove avrebbero esposto quanto pagava Kircubbin. Parola, guardando la corsa mi ero dimenticato di quanto il mio vecchio aveva puntato su Kircubbin. Avevo tanto voluto che Kzar la vincesse. Ma ora che tutto era finito era bello sapere che avevamo azzeccato il vincente. «Non è stata una bella corsa, papa?» gli dissi. Mi guardò in modo strano, con la bombetta sulla nuca. «George Gardner è un gran fantino, come no» disse. «Ci voleva proprio un gran fantino per impedire a quello Kzar di vincere.» Avevo sempre saputo, si capisce, che era una corsa truccata. Ma sentirlo dire così, dal mio vecchio, fu un colpo terribile, per me, da cui non mi ripresi nemmeno quando affissero i numeri al tabellone e suonò la campana per avvertire gli scommettitori e vedemmo che Kircubbin pagava sessantasette e cinquanta a dieci. Tutt’intorno la gente diceva: «Povero Kzar! Povero Kzar!». E io pensavo: Vorrei essere un fantino, e vorrei averlo potuto montare io invece di quel figlio di puttana. Ed era strano, pensare a George Gardner come a un figlio di puttana, perché mi era sempre stato simpatico e per giunta ci aveva dato il vincente, ma a conti fatti credo proprio che lo sia, sissignore un figlio di puttana.

Il mio vecchio era pieno di soldi, dopo quella corsa, e cominciò a venire a Parigi più spesso. Se correvano a Tremblay, si faceva lasciare giù in città mentre gli altri tornavano a Maisons, e ci sedevamo insieme davanti al Café de la Paix a guardare la gente che passava. È divertente stare là seduti. Ci sono fiumi di gente che passa e tipi di ogni genere che ti abbordano per venderti qualcosa, e a me piaceva molto stare là seduto col mio vecchio. Era in quei momenti che ci divertivamo di più. Arrivavano dei tipi che vendevano dei buffi conigli che saltavano se schiacciavi una peretta e venivano al nostro tavolo e il mio vecchio scherzava con loro. Parlava il francese proprio come l’inglese e tutta quella gente sapeva chi era, perché un fantino si riconosce sempre: e poi noi ci sedevamo sempre allo stesso tavolo e loro si abituavano a vederci là. C’erano dei tipi che vendevano bollettini di annunci matrimoniali e delle ragazze che vendevano uova di gomma dalle quali, schiacciandole, saltava fuori un gallo; e un vecchio dall’aria losca che passava con delle cartoline di Parigi, mostrandole a tutti, e nessuno naturalmente le comprava, e allora lui tornava indietro e mostrava il disotto del mazzo, ed erano tutte cartoline sconce, e un sacco di gente sceglieva quelle che preferiva e le comprava. Dio, ricordo la strana gente che passava. Ragazze che all’ora di cena cercavano qualcuno che le portasse a mangiar fuori, e si rivolgevano al mio vecchio e lui diceva qualche battuta in francese e loro mi facevano una carezza sulla testa e tiravano diritto. Una volta c’era un’americana seduta con la figlia al tavolo vicino al nostro, e mangiavano il gelato, tutt’e due, e io non facevo che guardare la bambina, che era di una bellezza straordinaria, e le sorrisi e lei sorrise a me, ma la cosa finì lì, perché io le cercavo tutti i giorni e pensavo a quali scuse trovare per parlarle e mi chiedevo se, una volta che l’avessi conosciuta, sua madre mi avrebbe permesso di portarla a Auteuil o a Tremblay, mentre non le rividi mai più, né l’una né l’altra. Comunque, credo che non sarebbe servito a niente, perché ripensandoci ricordo di essermi detto che il modo migliore per attaccare discorso consisteva nel dire: «Scusate, ma posso darvi un vincente per le corse di oggi a Enghien?», e dopo tutto forse lei avrebbe pensato che ero uno di quelli che vendono le dritte sui cavalli, invece di essere uno che voleva darle sul serio un vincente. Stavamo là seduti al Café de la Paix, io e il mio vecchio, e il cameriere ci portava in palma di mano, perché il mio vecchio beveva whisky e l’whisky costava cinque franchi, e questo significava una buona mancia quando si contavano i piattini. Il mio vecchio beveva più che mai, più di quanto lo avessi visto fare, ma allora non montava, e per giunta diceva che l’whisky gli impediva d’ingrassare. Io invece mi ero accorto che ingrassava lo stesso. Si era staccato dalla vecchia ganga di Maisons e sembrava che gli piacesse solo starsene là seduto, con me, sul boulevard. Ma ogni giorno lasciava all’ippodromo una parte dei suoi quattrini. Si sentiva un po’ depresso dopo l’ultima corsa, se quel giorno aveva perso, finché non eravamo seduti ai nostro tavolo, e allora beveva il primo whisky e stava bene. Leggeva il “Paris-Sport” e mi guardava e diceva: «Dov’è la tua ragazza, Joe?», per prendermi in giro, dal momento che gli avevo parlato della bambina di quel giorno al tavolo accanto. E io arrossivo, ma non mi dispiaceva essere preso in giro per lei. Mi dava una sensazione gradevole. «Tieni gli occhi aperti, Joe» diceva lui «tornerà.» Mi faceva un mucchio di domande e rideva, di certe cose che dicevo io. E poi si metteva a parlare. Delle corse in Egitto, o a Saint-Moritz, sul ghiaccio, prima che morisse mia madre, e di quando, durante la guerra, si facevano, nel sud della Francia, vere e proprie corse senza premi, né scommesse, né spettatori, né altro, solo per non perdere la razza. Vere corse con i fantini che spremevano al massimo i cavalli. Dio, potevo starlo a sentire per ore mentre parlava, specie dopo che aveva bevuto un paio di whisky e magari qualcuno di più. Mi raccontava di quando era ragazzo nel Kentucky e andava a caccia di procioni, e dei vecchi tempi negli States prima che andasse tutto a rotoli. E diceva: «Joe, quando avremo vinto una posta come dico io, tu tornerai là negli States e andrai a scuola». «Perché devo tornare negli States e andare a scuola se là è andato tutto a rotoli?» gli chiedevo. «Questo è un altro discorso» diceva lui, e chiamava il cameriere e pagava la pila di piattini e prendevamo un taxi per la Gare Saint-Lazare e salivamo sul treno per Maisons. Un giorno a Auteuil, dopo uno steeplechase a vendere, il mio vecchio comprò il vincente per trentamila franchi. Dovette andare un po’ su con le offerte, per averlo, ma finalmente la scuderia mollò il cavallo e il mio vecchio, in una settimana, ebbe il suo permesso e i suoi colori. Dio, come mi sentivo orgoglioso quando il mio vecchio diventò un proprietario. Si mise d’accordo con Charles Drake per un box e smise di venire a Parigi, e riprese a correre e a sudare, e lui e io eravamo tutto il personale della nostra scuderia. Il cavallo si chiamava Gilford, era di razza irlandese ed era un buon saltatore, bello ed elegante. Il mio vecchio pensava che alle’ nandolo e montandolo da sé fosse un buon investimento. Io ero fierissimo di tutto e pensavo che Gilford fosse un buon cavallo come Kzar. Era un buon saltatore, un baio, robusto e molto veloce in piano, se lo spingevi a fondo, ed era anche bello da vedere. Dio, come mi piaceva. La prima volta che partì col mio vecchio in arcione, finì terzo in una corsa a ostacoli di duemilacinquecento metri, e quando mio padre smontò, tutto sudato e felice nel recinto dei piazzati, e andò al peso, mi sentii così fiero di lui come se fosse la prima corsa in cui era riuscito a piazzarsi. Vedete, quando uno non monta da un pezzo, si stenta a convincersi che abbia davvero montato, una volta. Adesso era tutto diverso, perché a Milano pareva che nemmeno le grandi corse avessero molta importanza per il mio vecchio, e se vinceva non si entusiasmava mai, mentre adesso la situazione era tale che non riuscivo quasi a dormire la notte prima di una corsa, e sapevo che anche il mio vecchio era emozionato, sebbene non lo dimostrasse. È montare per sé che cambia tutto. La seconda volta che corsero, Gilford e il mio vecchio, era una piovosa domenica a Auteuil, nel Prix du Marat, uno steeplechase di quattromilacinquecento metri. Come fu in pista scappai su in tribuna col binocolo nuovo che mi aveva comprato il mio vecchio perché potessi seguire la loro corsa. Partivano lontano, dalla parte opposta dell’ippodromo, e ai nastri c’era un po’ di agitazione. Un cavallo con i paraocchi faceva una grande confusione e s’impennava e ruppe una volta la barriera, ma io vedevo che il mio vecchio, nella nostra giubba nera con la croce bianca e col berretto nero, si alzava sulla sella e carezzava Gilford con la mano. Poi partirono di scatto e scomparvero dietro gli alberi e il gong suonava disperatamente e con grande fragore si chiudevano gli sportelli del totalizzatore. Dio, ero tanto emozionato che non avevo il coraggio di guardarli, però puntai il binocolo nel punto dove dovevano uscire da dietro gli alberi, e da dietro gli alberi uscirono, con la vecchia giubba nera al terzo posto, volando tutti come uccelli sopra sull’ostacolo. Poi scomparvero di nuovo e poi riapparvero, precipitandosi giù per la di’ scesa, e correvano tutti insieme con scioltezza, rapidi e leggeri, e tutti insieme saltavano l’oxer, senza fatica, e formando un gruppo compatto si allontanavano. Sembrava gli si potesse camminare sulla schiena, tanto erano vicini e tanto tranquilla era la loro andatura. Poi s’innalzarono sulla doppia siepe e uno cadde. Non riuscii a vedere chi fosse, ma in un attimo il cavallo era in piedi e galoppava, libero, mentre gli altri, sempre in gruppo, affrontavano la lunga curva a sinistra prima del rettilineo. Saltarono il muretto e tutti insieme vennero giù per la pista verso la grande riviera proprio davanti alle tribune. Li vidi arrivare e incoraggiai a gran voce il mio vecchio mentre passava, ed era in testa lui di circa una lunghezza e guadagnava, agile come una scimmia, e correvano tutti verso la riviera. Tutti insieme spiccarono il salto sopra la grande siepe della riviera e allora ci fu uno scontro, e due cavalli uscirono dall’ostacolo di traverso, e continuarono a correre, e altri tre caddero l’uno addosso all’altro. Non vedevo più il mio vecchio. Un cavallo si mise in ginocchio e si rialzò, e il fantino lo prese per le redini, balzò in sella e partì verso il traguardo, inseguendo la borsa dei piazzati. L’altro cavallo si alzò e andò via per conto suo, scuotendo la testa e galoppando a briglia sciolta, mentre il fantino si portava barcollando ai margini della pista e si appoggiava allo steccato. Poi Gilford si girò su un fianco, scoprendo il mio vecchio, e si alzò e si mise a correre su tre zampe, con lo zoccolo anteriore penzoloni, e il mio vecchio era là sull’erba, lungo disteso, con la faccia rivolta al cielo e un lato della testa tutto coperto di sangue. Corsi giù dalla tribuna e mi ficcai nella calca e raggiunsi il parapetto e un poliziotto mi afferrò e mi trattenne, mentre due grossi barellieri correvano verso il mio vecchio e, dall’altra parte della pista, tre cavalli, sgranati, uscivano dagli alberi e saltavano l’ostacolo. Il mio vecchio era morto quando lo portarono dentro, e mentre un dottore gli ascoltava il cuore con un aggeggio infilato nelle orecchie udii uno sparo in fondo alla pista che significava che avevano ucciso Gilford. Mi gettai sul mio vecchio, quando portarono la barella nella sala dell’infermeria, e mi aggrappai alla barella e piansi senza freno, e lui appariva così pallido e stanco e così morto, così spaventosamente morto; e non potevo far a meno di pensare che se il mio vecchio era morto forse non c’era stato nessun bisogno di sparare a Gilford. Il suo zoccolo avrebbe potuto guarire. Non so. Gli volevo tanto bene, al mio vecchio. Poi entrarono due uomini e uno mi batte la mano sulla spalla e poi si avvicinò e guardò il mio vecchio e poi prese un lenzuolo dal lettino e glielo stese sopra; e l’altro stava telefonando, in francese, che mandassero l’ambulanza per portarlo a Maisons. E io non riuscivo a smettere di piangere, di piangere e di morire soffocato, quasi, e poi entrò George Gardner e si sedette accanto a me sul pavimento e mi cinse le spalle con un braccio e dice: «Su, Joe, vecchio mio. Alzati e andiamo fuori ad aspettare l’ambulanza». Io e George uscimmo e ci fermammo davanti al cancello, e io cercavo di smettere di frignare e George mi asciugò la faccia col suo fazzoletto e stavamo un po’ indietro mentre la folla usciva dal cancello e due tizi si fermarono accanto a noi mentre aspettavamo che la folla uscisse dal cancello e uno dei due stava contando un pacco di tagliandi del totalizzatore e disse: «Be’, Butler ha avuto il fatto suo». L’altro disse: «Non m’importa un accidente di quell’impostore. Ben gli sta, con tutti gli imbrogli che ha fatto». «Lo dico anch’io» disse l’altro, e stracciò in due il fascio di tagliandi. E George Gardner mi guardò per vedere se avevo sentito e io avevo sentito benissimo e lui disse: «Non badare a quello che hanno detto quei fannulloni, Joe. Il tuo vecchio era un uomo in gamba». Ma io non lo so. Si direbbe che una volta cominciato non vogliano lasciarti proprio nulla