Maia Bassa-ippodromo di Merano-1970. Uno studente dagli scarsi profitti, si racconta all’insegna di uno sconfinato amore per i cavalli e le corse.
Di Claudio Gobbi
Il Testo completo e nell’immagine il racconto apparso su liberoquotidiano di oggi domenica 23 febbraio 2020. Sono passati cinquant’anni da quell’agosto del 1970
LA VACANZA PIU’ BELLA DELLA MAI VITA: a MERANO A CAVALLO
Vi racconto una storia. È quella della vacanza più bella della mia vita. L’ho vissuta grazie a mia mamma, la Valeria, quasi per caso sul cammino che da quando avevo vent’anni ho percorso con i cavalli fino a questi, quasi, settanta. E naturalmente c’è un altro protagonista, un cavallo, di cui poi vi dirò.
Cominciò a tutto in una camera d’ospedale. Forse il San Carlo di Milano. Ma non ne sono certo. Mia mamma era ricoverata per un intervento. Accanto al suo letto di degenza c’era un’altra donna, un po’ grossa se ricordo. Era la moglie di uno dei maggiori fantini d’ostacoli del tempo (siamo nel 1970). Si chiamava Nello Coccia, plurivincitore di Gran premo Merano. Uno che i cavalli in lavoro alla mattina li teneva di forza con due braccia muscolose grosse così.
Grazie ai buoni uffici di questa signora venni segnalato e mi presero per il corso entleman in ostacoli (fantini dilettanti) che ogni anno si teneva a Merano. Mica una robetta così! Ma un impegno pesante e fatto di sacrificio.
Credo arrivai alla stazioncina meranese di Maia Bassa che pareva uscita da un vecchio film, dopo aver cambiato a Bolzano. In tasca avevo un piccolo gruzzolo, mi pare 150 mila lire che dovevano bastarmi, anzi me ne dovevano avanzare, per tutto quel mese di agosto del 1970, avevo i fatidici vent’anni. Facevo lo studente all’istituto tecnico Carlo Cattaneo di Milano, con scarsi profitti. Ero entusiasta e un poco timoroso. Mi ero portato tutto il completo: stivali anche se erano da equitazione e non da corsa, i miei pantaloni di fustagno marroni (fantastici), una frusta che proveniva direttamente dal sellaio Pariani, quello storico di via Capecelatro dove per lustrarmi gli occhi e annusare quel buon odore di cuoio, ogni tanto facevo delle capatine.
Del mio abbigliamento, diciamo da civile, ricordo solo un impermeabile blu, e un paio di scarpe. Erano delle Barrow bordeaux. Il particolare mi è rimasto impresso perché furono notate, tant’è che mi chiesero se fossero originali: certo che lo erano! Avevano, come si usava allora, la punta bombata ed erano l’ultima moda ed io ho sempre avuto un debole per le scarpe e per l’ultima moda.
Di quel gruppo di una dozzina di allievi, eravamo in tre, diciamo fuori dal coro. Io, figlio di un pompiere neppure ufficiale, Andrea Donati, un ebreo e come tale sempre ai margini non si sa se per sua volontà o per volontà altrui (ma credo per volontà altrui), e Giorgio Bergamaschi, che già allora si faceva notare per indipendenza e una sana stravaganza da dandy, che ha mantenuto nel tempo. Tutti e tre diversi, non omologabili. A fronte di un gruppo che comprendeva nobili e alto borghesi tra cui Annibale Brivio Sforza, i due Bossi, di cui uno sarebbe poi entrato nella squadra olimpica di completo, Claudio Belgrano, il povero Claudio Belgrano, scomparso appena cinquantenne. Marco Rocca, non un nome qualsiasi ma il rampollo di una illustre famiglia milanese che ho davanti agli occhi quando arrivò a Borgo Andreina (il centro di allenamento di cavalli da corsa) dove si teneva il corso) direttamente da Milano, sulla sua moto BmW, quella nera con il doppio sellino. Non ricordo se vi furono presentazioni tra gli allievi, tra gli allievi e l’istruttore.
Le scuderie dei cavalli della scuola stavano all’estremo limite di Borgo Amdreina, così chiamato in onore della prima vincitrice del Derby Italiano di Galoppo di fine Ottocento. A ognuno di noi venne destinato un allievo groom (uomo di scuderia). Il mio si chiamava Nicchirì che poi sarebbe diventato fantino ma le cui tracce si sono perse. Non ricordo i momenti delle presentazioni. Neppure l’assegnazione dei cavalli. Sono sicuro che il mio era un sauro perché l’ho negli occhi per un episodio sugli ostacoli in cui mi scaraventò più volte a terra rifiutando di portarmi al di la della siepe. Non ricordo neppure la presentazione del responsabile del corso, tuttavia lo ricordo bene il colonnello Pianella, un signore alto, magro dai modi affabili ma fermi. Ma non era lui che sovra intendeva il corso, ma un maresciallo avanti con l’età, pingue con un bel faccione tutto pantaloni e stivali militari. Borgo Andreina era il centro in cui erano e sono acquartierati i cavalli in palazzine dove sotto ci stavano i box e sopra gli alloggi dei i groom, e dove fummo sistemati noi ragazzi.
Stavo in una camera a due letti. Che dividevo con un allievo indicato da Alessandro Argenton, uno dei mostri sacri del mondo Gentlemen in Ostacoli. Di cognome faceva Calabrò. Di me ricordo quell’impermeabile blu con cui svelto entravo in mensa per la colazione del mattino. E un particolare: gli uomini di scuderia e i fantini mi chiamavano, anzi, ci chiamavano, “signorino”, che è poi il maschile di signorina, evidentemente. Mai avrei pensato di essere appellato in quel modo io che allora ero di sinistra, una scelta che avrei nel tempo rivisto radicalmente. Ma ripensandoci, devo dire che mi faceva piacere.
Questa la giornata tipo. Sveglia alle 6.30, Colazione in mensa già vestiti per l’uscita a cavallo che il groom ci faceva trovare già sellato. Esercizio nel tondino adescante ai box sotto lo sguardo vigile e attento del maresciallo (o era maggiore?). In fila poi attraversavamo tutto borgo Andreina, infilavamo il sottopassaggio che dalle scuderie portata al boschetto che stava proprio ai margini della pista da corsa e li eseguivamo esercizi di agilità e maneggevolezza del cavallo.
Poi tutti in fila indiana a galoppare sull’anello di sabbia che delimitava tutta la pista da corsa, Poi, tutti in scuderia. Fa sempre caldo in agosto a Merano. avevo fatto amicizia con i due fratelli Bossi, di cui uno sarebbe diventato olimpionico. L’altro era iscritto ad architettura a Venezia. Di entrambi ho poi perso le tracce. Ma il bello veniva appunto all’ora di pranzo. Fantastici attimi! La meta era il vicino Piccolo Hotel, che poi tanto piccolo non era ma molto, ma molto chic. E qui consumavamo una colazione superba di cui ricordo con infinita nostalgia quei deliziosi gamberetti in salsa rosa, che poi con i pacchetti di Malboro sarebbero stati una delle principali cause del mio dissesto finanziario e causa di una faccia nerissima di mia madre quando con il papà venne a Merano per vedermi correre.
Non ero consapevole del privilegio che mi era stato accordato, quello di essere in un mondo ricco di opportunità, di personaggi che potevano darmi una mano in tutti sensi ma ritenevo normale essere a Merano a frequentare il corso per Gentlemen Rider. Invece normale non era, appunto. Non mi rendevo conto di essere un privilegiato. Inoltre non capivo che il mondo del cavallo poteva essere il mio mondo per gli anni a venire. Fu uno dei tanti, purtroppo, treni persi. E ora di treni ne stanno passando pochi.
Lui si chiamava Morozzo. Era un castrato baio di 13 anni. Mi fu dato in dotazione dopo che il sauro che mi era stato assegnato il giorno dopo del nostro arrivo, non andava d’accordo con il sottoscritto. Tanto che alle prime prove sugli ostacoli venniscaricato almeno un paio di volte. E Pianella decise di cambiarmelo. Lui mi è rimasto nel cuore per tutta questa mia vita in cui ho raggiunto i 69 anni. Era un bel baio, dalle giusta proporzioni, neppure troppo flemmatico, ma rispettoso degli ordini. Andavamo d’accordo. L’allora mia stupidità, (non è che adesso sia migliorato granché) mi impedì di proporre ai miei genitori il suo acquisto. Avrei dovuto sapere che era il cavallo della vita (almeno fino all’arrivo di Ole delle Paludi, la mia saura adorata che acquistai alla fine degli anni novanta).
La coppia, Claudio vs Morozzo fece il suo debutto pochi giorni prima della fine del corso, una domenica di luglio. In una giornata di pioggia. Agognavo quel debutto, nelle settimane precedenti ammiravo con tanta invidia e tristezza i miei compagni che già saltavano fossi e arginelli, siepi e muretti in costa. Ero escluso, il colonnello non mi riteneva pronto. Ma poi finalmente ecco che quella domenica li io e Morozzo scendemmo in pista. Lui bellissimo, ed io con i miei stivali da equitazione, i miei pantaloni di fustagno marroni, il maglione blu con maniche grigie (o viceversa, non ricordo più tanto bene) che era in dotazione a tutti gli allievi. Il casco nuovo di pacca lo avevo acquistato dal Pariani come anche la frusta, tutta roba che conservo ancora gelosamente. Scendevo dunque a galoppare su quel manto erboso che aveva visto le gesta di cavalli celebri tra cui Tenerani, il padre di ribot, e fantini famosi.
I preliminari non li ricordo affatto. Non l’insellaggio, non il tondino, non là vestizione, non l’andata in pista alla partenza. Talvolta invece rivivo nel sogno quei momenti. Ricordo solo che mi feci prestare gli occhialetti da corsa ad Annibale (Annibale Brivio Sforza). Che poi gettai prima della partenza perché non mi ci trovavo. Ma ho vivissimo il momento in cui lo starter diede il via. Rimasi attardato, Gli altri erano già oltre la prima siepe proprio davanti al via di quei 2500 metri, una distanza ridotta proprio per favorire noi allievi gentlemen, rispetto a quella tradizionale dei 3000. Io preso dalla frenesia cominciai dunque solo allora a galoppare su quell’erba paradiso di saltatori e fantini. Saltai la prima siepe che mi pareva gigantesca. Poi continuai a saltare e saltare e saltare. Ho negli occhi due momenti della corsa. Quando dopo il muro in cresta vidi a terra inginocchiato con le mani sulla faccia Riccardo Menichetti, un ragazzo che ci sapeva fare a cavallo alla grande e che era caduto poco prima del mio passaggio, e quello della siepe in curva che immette sulla dirittura d’arrivo.
Pasqualino Mazzoni, uno che di cavalli ci ha sempre capito e di cui ho perso traccia, mi aveva detto che Morozzo a quella siepe avrebbe scartato a destra, come faceva del resto sempre e sarei stato squalificato. Ero deciso a non permetterglielo. Quando ci arrivai, portai la frusta a destra, la tenni ben frema sulla sua spalla, il cavallo capì che non scherzavo e passò l’ostacolo.
La dirittura di Maia non è tanto lunga. Passai indenne l’ultima siepe. Lontano vedevo due cavalli che battagliavano per la vittoria. Dovevano essere quelli di Calabrò e del più piccolo dei Turner. A prevalere con disappunto del secondo fu Calabrò. Io inaspettatamente ero il terzo al traguardo. Nelle corse per allievi gentlemen non c’erano scommesse, ma in caso contrario avrei pagato una cifra.
Il rientro all’insellaggio che a Merano sta accanto alla palazzina del peso riservata ai proprietari e ai fantini, mi vedeva con le braccia alzate, trionfante per quel terzo posto, con il cavallo condotto a mano del mio fido groom Nicchirì. E mio papà, il Renato ad accogliermi. Non stava più nella gioia, era talmente emozionato che non era riuscito a mettere a fuoco la cinepresa che si era portato da Milano per filmare la corsa. Di cui è rimasto un solo fotogramma sbiadito.
Quella corsa, quel momento, oggi credo fu una delle poche gioie che diedi al mio papà. Che lo rese fiero di me. Poi sono divenuto un purtroppo un comunista, poi sono stato male per lunghi anni, fino al giorno in cui un altro cavallo, anzi, una cavalla, a Chantilly, mi rese ancora felice, Si chiamava ReineDidon. Ma questa è un altra storia.
Ora la scuola per allievi Gentlemen non esiste più, finita nel calderone delle cose belle di questo Paese distrutte da personaggi che i cavalli non sanno neppure più cosa sono. Merano. Il suo ippodromo è rimasto, oggi sotto la guida di Giovanni Martone, che lo ha valorizzato a livello internazionale.
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